La Cina non è vicina, dista millenni di Arrigo Levi

La Cina non è vicina, dista millenni VIAGGIO ALLA GRANDE MURAGLIA CHE ESCLUDEVA I BARBARI La Cina non è vicina, dista millenni Pechino, ultima Ninive, conserva la sua vocazione antica a un destino imperiale, è la negazione della città borghese; le metropoli del capitalismo ottocentesco, Shanghai e Canton, sono in sfacelo - Nello sterminato territorio l'uomo non ha ancora il controllo della natura e paure primordiali si mescolano agli oscuri timori dell'età nucleare DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE DI RITORNO DALLA CINA —Sorvolando, per ore ed ore, gli sterminati territori dell'India e della Cina, si vede bene, anche dall'altezza di diecimila metri, come in una carta geografica, l'intensità degli insediamenti umani. Da Bombay a Pechino, dalle coste dell'Oceano Indiano alle soglie dell'Estremo Oriente sovietico, si vola sulla testa di mezza umanità. Le città e i villaggi sono punti e macchie disposti fittamente sulla ragnatela delle vie di comunicazione. Lungo le coste si aprono vasti golfi, bocche di estuari, sulle cui rive si addensano metropoli. Come un tessuto variopinto, la civiltà dell'uomo ricopre le pianure dell'Asia. Ma al pensiero questo tessuto appare fragile, facilmente lacerabile. Si è portati a chiedersi: come si può governare questo mondo di moltitudini, quest'epoca di cambiamenti? L'incontro diretto —11 primo, nel mio caso — con la realtà della Cina, sia pure breve e limitato a poche grandi città, dà corpo e sostanza a queste riflessioni. I rapporti umani sono molto gradevoli. La cortesia del cerimoniale ufficiale che ci accoglie ha le movenze di un antico balletto, il calore dei contatti occasionali (basta dire una parola sorridente ai bambini, che guardano lo straniero con tondi occhi stupiti, per suscitare slanci di amicizia) ha una dolcezza tutta orientale, esprime festosità per l'incontro straordinario con cittadini di remote civiltà. La Cina non è affatto vicina, ma la si lascia col desiderio di ritornarvi e si è portati ad augurarle successi. In nessun luogo, tuttavia, come in Cina, si sente quanto sia grande la sfida che il mondo d'oggi deve affrontare. Doppia sfida E', qui lo si vede distintamente, una doppia sfida, della Natura e della Civiltà. In questo Paese-continente, dalla storia millenaria, il controllo dell'uomo sulla Natura è ancora precario. I cataclismi, le tremende inondazioni o i tifoni che provocano migliaia di morti e distruggono decine di migliaia di abitazioni, sono, nella realtà cinese, ancora un fatto ricorrente ed inevitabile, In questo mondo, che pure ha alle spalle una grande civiltà che ha dato frutti pre ziosi, paure primordiali legate al conflitto originario tra l'uomo e la Natura si affian cano cosi, senza pausa, agli oscuri timori propri dell'età nucleare, legati ai conflitti tra uomo e uomo. La dimen sione cinese della storia contemporanea illumina gli sfondi più remoti, da noi quasi dimenticati, della vicenda umana, che oggi sem¬ bra farsi sempre più minacciosa: ma la Cina ci ricorda che essa non fu mai priva di una dimensione tragica. Le tappe d'obbligo dell'itinerario turistico - politico, dalla Grande Muraglia alle tombe Ming, da Pechino a Shanghai e Canton, offrono quasi una sintesi della storia dell'uomo, con suggestivi anacronismi. Dicono 1 Cinesi che la Grande Muraglia, lunga migliaia di chilometri, è l'unico segno della civiltà umana sulla superficie della terra che sia visibile ad occhio nudo da un'astronave in orbita. Non so se ciò sia vero. Forse sono visibili anche i nastri lucenti delle autostrade occidentali, la selva di grattacieli di New York, le luci di Tokyo: ma si deve appunto percorrere l'intero ciclo della storia umana per trovare nel mondo d'oggi qualcosa di paragonabile all'opera costruita dalle moltitudini cinesi nella notte dei tempi. La Muraglia è come un elegante orlo serpeggiante sul crinale del primo cerchio di montagne che racchiude, poche decine di chilometri a Nord della metropoli asiatica, una pianura piatta e beni coltivata, fitta di orti e solcata da filari di pioppi argentei e di sòfore, che ai nostri occhi sembra quasi lombarda. Ma lombarda non è, per la densità delle squadre di contadini con i loro grandi cappelli e i loro arnesi dispersi nei campi, per il continuo passaggio delle greggi di pecore e di drappelli d'asinelll lungo le strade vuote di traffico, per la teoria di carrettini sovraccarichi. Questa pianura cessa subitamente e ci si inoltra in una valle stretta ed impervia; dopo poche decine di minuti si scorgono in alto, lontanissime sul ciglio dei monti, le mura imponenti, con le torri e i merli, un terrapieno largo come una strada, che sale e scende per migliaia di chilometri. In origine, dicono, erano 70 mila chilometri, un arco che racchiudeva tutto il mondo della Cina (tutta la civiltà, pensavano i cinesi), contro la minaccia dei barbari. Al suo riparo si estendevano le pianure irrigue, le immense estensioni di risaie capaci di nutrire popolazioni vastissime, le antiche città, sterminati accampamenti di basse casette in mezzo alle quali, protette da alte mura, si ergevano le città proibite dell'Imperatore Pechino è ancora l'ultimo esempio di queste metropoli primordiali, l'ultima Ninive, l'ultima Babilonia. La casa cinese, chiusa dentro le mura che proteggono dai venti e dalle sabbie o dagli spiriti maligni, conferisce alle città un aspetto ostile e remoto. Accentua questo carattere disumano l'operazione urbanistica di stampo sovietico fatta dalla Cina di Mao: lo squarcio degli interminabili boulevard», vuoti di traffico automobilistico. Un figlio solo La città si presanta, al calar del sole, improvvisamente silenziosa e quasi deserta, con la gente che, seduta sui marciapiedi, giuoca a dadi o a carte; può capitare che i grandi viali, fiancheggiati dai brutti palazzoni sovietici, siano percorsi nella notte da silenziosi greggi di pecore. Di giorno la città è gremita di traffico umano, pedoni e biciclette; nelle strade laterali si scoprono fitti nodi di negozi e bottegucce. Nel cuore di Pechino, tra la piazza Tiananmen, la Porta della pace celeste, grande e vuota come un piazzale d'aeroporto, e quella città nella città che è la città imperiale, con i solenni padiglioni dalle rosse colonne, le vaste corti, le statue e le sculture, vi è una sostanziale simbiosi di concezioni urbanistiche e sociali, che sono in realtà la negazione della città borghese come l'Europa l'ha concepita. Tra la dimensione imperiale e quella maoista non vi è tanto contrasto. Le altre città incluse nel nostro giro, soprattutto Shanghai e Canton (Hangzhou, con i suoi laghi e giardini, è un pezzo d'Italia subalpina trapiantato in Cina) sono per noi, visitatori euro- pei, come dei riconoscimenti. L'impianto dell'una e dell'altra metropoli è grandioso, ottocentesco, capitalista e borghese. Ma queste città sono oggi uno sfacelo (soprattutto Canton), vi è da chiedersi se questo imponente patrimonio urbanistico potrà essere salvato. Queste città sono state, visibilmente, invase da folle di contadini inurbati che vi vivono accampati. I vecchi quartieri europei reggono appena all'urto. I miserabili quartieri cinesi, che erano la vergogna di queste città •colonialistiche», sono mari di catapecchie irrecuperabili. A Shanghai (la città ha 6 e non 11 milioni di abitanti, come si dice abitualmente), un milione e mezzo di persone è stato rialloggiato in quartieri di nuova costruzione, dove la superficie media per individuo è di 5 metri quadri. Sono abitazioni piccolissime, modestissime e di aspetto squallido, assai più povere di quelle, già alquanto austere, con cui la Russia di Kruscev affrontò un problema analogo, ma con ben altri mezzi. Queste osservazioni vogliono essere fattuali, non critiche: è difficile immaginare una soluzione diversa da quella che la Cina del sottosviluppo cerca di dare al suo problema urbanistico. Nelle campagne le condizioni di vita sono forse oggi meno penose, dal punto di vista delle abitazioni; ma il visitatore europeo non visita mai la Cina interna, veramente arretrata, e comunque i redditi monetari sono modestissimi: 191 yuan, 140 mila lire al cambio ufficiale, forse due volte tanto come potere d'acquisto, è il reddito medio annuo del contadino cinese, secondo i dati ufficiali; 803 yuan quello del lavoratore statale nelle città. Le campagne sono sovrappopolate: la comune modello di Zhouxi che abbiamo visitato , vicino a Shanghai, ha 18 mila abitanti e soltanto mille ettari di terreno coltivabile (di cui 70 ettari negli appezzamenti privati), il che vuol dire circa 550 metri quadri di terreno a testa. Non stupisce che l'età minima legale per il matrimonio sia stata portata, dalla nuova legge del settembre 1980, a 22 anni per le donne e a 24 per gli uomini, mentre s'intensifica la campagna per persuadere le nuove coppie, con tutti i mezzi, ad avere soltanto un figlio. L'obiettivo della Cina è di arrivare, nel 2000, a una popolazione di soltanto 1200 milioni di abitanti, contro i 970 milioni d'oggi. Ma non sarà facile raggiungerlo; nel 1948 i Cinesi erano 540 milioni. Con questa marea montante di popolazione, il problema di come nutrire queste masse è ancora quello dominante: in esso si sommano temi antichissimi e contemporanei. Per giudicare, non si possono instaurare confronti con i Paesi dell'Occidente, e non so quanto sia giusto farne con nazioni certo più simili, ma sempre diverse, quali l'India o il Brasile. Forse il confronto va fatto con il passato della Cina, e in tal caso il giudizio che ne esce sarebbe certo più equo e positivo. Va detto che l'assoluta povertà delle case, degli abiti, dei mercati e dei negozi, non riesce a comunicare un'impressione di angoscia; forse per la scrupolosa pulizia e, oggi, varietà di colori degli abiti; forse perché non si vedono volti di fame e i bambini sono splendidi; forse perché l'atmosfera della città cinese (anche nella notte tropicale di Canton, quando le strade sono brulicanti di folla che, evidentemente, fugge da case inabitabili), co¬ munica sempre impressioni di sicurezza, di cortesia. Eppure le tensioni sociali debbono essere immense, se si pensa a ciò che fu, come movimeno di massa, la Rivoluzione Culturale. Ma oggi non se ne vedono tracce. L'immagine che si ha della Cina è, soprattutto, quella di un popolo di •faticatori»: queste masse «faticano», lavorano, per stare a galla, per mangiare, per governarsi. In questa sua fatica primordiale il popolo cinese merita sicuramente tutto l'aiuto, tutta la simpatia, tutta l'amici¬ zia: ma non si può non rimanere esterrefatti al pensiero che esso possa essere stato un mito per schiere d'intellettuali occidentali, supernutriti ed annoiati. E' giusto porre, in queste condizioni, il problema del sistema politico? Mi sembra inevitabile. Non si può non chiedersi se il comunismo, per efficace che sia nel distribuire con una certa equità la povertà, rappresenti davvero la via più diretta e più rapida per la modernizzazione. La conclusione di un viaggio in Cina ad Hong Kong, nella «Cina di Sua Maestà Britannica», è sconvolgente: Hong Kong è decisamente una città cinese, ma le due ore di treno che separano Canton da Hong Kong — due metropoli con identica vocazione mercantile e produttiva — sono piuttosto due secoli di distanza tra l'ottocentesca città, annerita e poverissima, e una grande metropoli bellissima e avveniristica, dove anche i quartieri più popolari vivono — al paragone — nell'abbondanza. Eppure sono tutte due città cinesi, che mezzo secolo fa dovevano essere molto simili, e che ancora lo sono in tante caratteristiche, come i castelli di bambù legati che si costruiscono per crearvi dentro grattacieli, o i festoni di panni stesi come bandiere, o gli odori e i sapori dei mercati, che ad Hong Kong hanno però i colori festosi delle •Chinatowns». Le somiglianze sono troppe per evitare il confronto tra la Cina di Mao e la Cina di Sua Maestà. Anche se è come confrontare la Terra alla Luna. Arrigo Levi

Persone citate: Kruscev, Mao