La legge non scritta di Piero Calamandrei

La legge non scritta A 25 ANNI DALLA MORTE DI PIERO CALAMANDREI La legge non scritta Venticinque anni fa, il 27 settembre 1956, moriva a Firenze Piero Calamandrei: grande avvocato, universitario che aveva fatto della sua cattedra un'«officina di coscienze», garbatissimo scrittore, antifascista, rivendicatore e celebratone della Resistenza, uno degli artefici e poi il più pertinace difensore della Costituzione repubblicana; insomma, come allora fu scritto, «un esemplare di quegli uomini i quali, in tutte le epoche, concentrano in sé una civiltà». Per risentirlo ancora vivo in mezzo a noi, il modo migliore è forse quello di ripensare alla decisiva svolta che impressero alla sua esistenza gli ultimi, catastrofici anni del fascismo, gli orrori della guerra, la Resistenza. Il suo diario inedito, dal 1939 al 1945, rivelerà a tutti l'intensità di questa angosciosa maturazione interiore. Aveva fatto sue, in quegli anni, le parole attribuite a Bergson morente, in Parigi occupata dai tedeschi: «Possiamo chiamarci fortunati, che ci è stato concesso di vedere coi nostri orchi l'uomo preistorico». Il dramma del suo tempo,"'sofferto fino allo spasimo, si ripercosse in tutti i suoi pensieri, fece di lui un altro uomo, quello che tanti italiani ancora ricordano. In letteratura, attentissimo lettore di testi specialmente italiani e francesi, aveva sempre prediletto gli autori di salda tempra morale e civile, con qualche sospetto per i contemporanei (ma ammirava Kafka). Primeggiava ai suoi occhi Carducci, per il quale confessava di aver sempre nutrito una vera «passione amorosa». Diffidava delF«arte pura», delle avanguardie letterarie come della pittura astrattista. Ma ora, di fronte alla vergogna del fascismo e all'incombere della tragedia sull'Europa, si indignava addirittura, nei soliloqui del diario o nelle conversazioni con gli amici come Pancrazi, delle rarefatte esercitazioni dell'ermetismo, o di giovani scrittori come Landolfi e Piovene. Per lui, tutta questa era gente che si isolava in un ego! stico e deplorevole disimpe gno, che non sentiva la gravità dell'ora. Ammirava, invece, «contenutisti», a cominciare dagli scrittori del settecentesco «Caffè», uomini che «stimava no triste svago di età vili e asservite la vuota letteratura non alimentata dalla coscienza rivi le». Sapeva che, agli occhi di critici scaltriti, questi suoi era no considerati discorsi da fili' steo o da limitato «moralista»; ma l'insofferenza si faceva in lui sempre più acuta. Per questo stesso motivo salutò come un degnissimo ritorno alla migliore tradizione (quella, per intenderci, di Manzoni) l'apparire del Mulino del Po di Bacchelli, con l'epopea del fiume simboleggiante il fluire del corso della storia; e nei suoi ultimi anni, colpito dalla bellezza di La luna e i falò, scriveva a Pavese: «Gli artisti veri toccano sempre le ferite della loro società, l'eterna pena dell'uomo». Lo sdegno per le audacie della nuova letteratura si era ormai placato. Ma restava convinto che l'arte non può estraniarsi dal suo tempo. Anche gli artisti, nelle ore supreme, dovevano scendere in campo per difendere la civiltà * * In quegli stessi anni, anche il suo sentimento patrio si era venuto mutando. Quest'uomo di schietta ispirazione risorgimentale, interventista nel 1915, primo degli italiani entrati a Trento liberata nel novembre del 1918, fedele a Mazzini e a Battisti, aveva sofferto come pochi lo scempio che della parola «patria» aveva consumato il fascismo, e le stolide vanterie di un regime che, dopo aver calpestato la libertà all'interno del Paese, si era accodato al nazismo e farneticava imprese di violenta sopraffazione di altri Paesi, abbandonandosi a un'orgia di retorica patriottarda. Di qui, l'insofferenza di Calamandrei per l'augusta parola bestemmiata dai fascisti. A un certo punto (e ce ne fa fede il suo diario) si era accorto, con intimo turbamento, che la sua vera «patria» era un'altra, la civiltà liberale e democratica messa a repentaglio dai dittatori, e in difesa della quale Francia e Inghilterra si accingevano a combattere, dopo tanti ingloriosi cedimenti che lo avevano fatto soffrire. L'autentica voce della patria, per lui, si rifugiava ormai nella radio straniera, negli emigrati politici, perfino nelle navi e negli aerei che bombardavano i nostri lidi e le nostre città. Per gli «esuli in patria» come lui, fupscprpdcrscstscTLsnsdmcmnttllefldtqrisnd fu una situazione moralmente penosissima. Per sollevarsi da tanta angoscia, e ritrovare qualcosa della patria perduta, non restava che ripiegarsi in solitudine, o tra pochi amici, nella riscoperta delle tracce nascoste di una incontaminata civiltà millenaria, risalente su su fino agli etruschi. Qui, in queste pieghe recondite, era l'Italia vera, di sempre, che il fascismo non poteva deturpare. Era questo il segreto significato delle gite che in quegli anni egli fece in Toscana con Pietro Pancrazi, Luigi Russo, Alessandro Levi * * Ma quanta mestizia, in queste gite; e quanta accorata tenerezza! Nello scendere un sentiero tra le rovine etrusche di Cosa (leggiamo nel bellissimo Inventario della casa di campagna), egli si sorprende a mormorare tra sé «una parola nuova», che gli pare, «da quanto è misteriosa e fresca, inventata ora: "patria"». Per questo, la caduta del fascismo avrà per lui, e per tanta gente, il senso esaltante e felice di una patria finalmente ritrovata. Ancora più profonde furono le tracce lasciate da questi anni di crisi sui suoi pensieri e atteggiamenti di giurista. Ed è questo senz'altro l'aspetto storicamente più rilevante della sua evoluzione. Per lunghi anni, sotto il fascismo e in reazione ad esso, aveva strenuamente difeso il principio della certezza del diritto, il «culto della legalità a tutti i costi», l'imperterrita applicazione delle leggi da parte del giudice, contro il sistema del «diritto libero», che veniva pericolosamente estendendosi nella Germania nazista (il Ftihrerprinzip). La sua era una battaglia in difesa della eguaglianza e libertà dei cittadini. Ma a un certo punto, di fronte alla persecuzione e all'arbitrio camuffati da leggi, e, in Italia, all'infamia delle leggi razziali, Calamandrei sentì e disse che la certezza del diritto era un dovere che non poteva più appagare il giurista. Accanto alla giustizia in senso giuri dico, come ossequio alle leggi, si doveva tendere alla giustizia in senso morale. Nel 1944, nella Firenze appena liberata, così1 dgldcdnpngnacd« 1 diceva agli studenti: «Sì, la legalità è molto, ma non è tutto; l'abbiamo difesa in tempo di disfacimento giuridico, ma non ci basta più. Al di sopra e al di dentro delle leggi scritte, di cui noi siamo i custodi e gli interpreti, ci occorrono quelle leggi non scritte di cui parlava Antigone». Da questo momento, fino al 1956, la sua vita fu spesa al servizio di questa causa etico-politica perché il nostro ordinamento giuridico si adeguasse agli ideali di giustizia e libertà, alle leggi non scritte di Antigone. Fu questa la profonda ragione per cui l'insigne processualista, formatosi alla scuola di Chiovenda, passò dal diritto processuale civile al diritto costituzionale, con sempre maggiore insistenza; e si batté a lungo per l'attuazione della Costituzione (che aveva argutamente battezzato l'Incompiuta, come la celebre sinfonia di Schubert). Quando finalmente uscì la prima sentenza della Corte costituzionale, egli scrisse su questo giornale un articolo dal titolo ben significativo: «La Costituzione si è mossa». Un ultimo rilievo scaturisce dalle cose ora dette. Fin dal 1920 Calamandrei aveva nei suoi scritti utilizzato Dei delitti e delle pene di Beccaria. Ma fu solo negli anni della barbarie nazista e della catastrofe che quelle pagine gli si rivelarono in tutta la loro impensata attualità Era ritornata in Europa la tortura, ma scientificamente organizzata e inflitta a popoli interi; e lo sfrenato arbitrio; e la morte. La parola di Beccaria si levava come un disperato appello al recupero dell'uomo, «persona e non cosa». Nelle ore più angosciose, egli scrisse una mirabile prefa zione al celebre trattato; e poi si adoprò, alla Costituente, perché l'insegnamento di quel piccolo libro non andasse disperso. Così fu, infatti. Se leggiamo la nostra Costituzione, e pensiamo alle vicende amare e agli spinosi problemi di questi nostri giorni —. le carceri, il «senso di umanità», il principio della certezza del diritto, la tortura, ia pena di morte — ci avvediamo che non solo Cesare Beccaria ma anche Piero Calamandrei sono ancora terribilmente attuali. A. Galante Garrone