E il contadino si compera la bici di Arrigo Levi

E il contadino si compera la bici CINA: IL DECENTRAMENTO ECONOMICO PROVOCA UNA RIVOLUZIONE E il contadino si compera la bici Per la prima volta le masse dispongono di un modesto surplus spendibile - Agli agricoltori è stato consentito di vendere sul libero mercato, a molte aziende di collegare profitti d'impresa con salari e livelli d'investimento - Risultato: aumento della domanda, inflazione e bilancio dello Stato in rosso - Ma forse sta nascendo un nuovo modello di «socialismo reale» DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE DI RITORNO DA PECHINO — La riforma economica di Deng Xiaoping non è certo frutto d'improvvisazione. La storia della Cina comunista è infatti caratterizzata da trentanni d'ininterrotto dibattito tra economisti e politici sulla strategia da seguire per realizzare l'obiettivo storico dell'uscita dal sottosviluppo, dell'eliminazione della miseria, della crescente eguaglianza. Il modello adottato fin dall'inizio dalla Cina di Mao era quello dell'economia a pianificazione centralizzata di tipo sovietico. Ma attorno ad esso si scontrarono diverse scuole e tendenze, con aspri scontri tra chi voleva una crescita rapida anche se squilibrata e chi predicava uno sviluppo più lento ma senza sprechi, tra i decentratori e gli accentratori, tra i riformatori e i difensori dell'ortodossia. E' in questo lungo dibattito che ha radice l'attuale riforma. Ma si tratta di vera novità? Qualcuno ha contato quattro cicli di centralizzazione-decentramento nell'arco di un trentennio, e vi ha incluso anche l'attuale: dopo il 'decentramento» del 1979-1980 saremmo ora di nuovo in fase di centralizzazione. Quest'analisi è abbastanza plausibile; ma non sono convinto che quest'ultimo ciclo, nel quadro della Cina di Deng Xiaoping, sia paragonabile agli altri. Stimoli Cicli analoghi a quelli passati cinesi vi furono anche nell'Unione Sovietica: giù Khrushchev tentò l'esperimento dei *sovnarkhozi*. le regioni economiche autonome, e poi l'abbandonò. Ma si trattava soprattutto di un decentramento geografico, che lasciava comunque intatte le strutture di comando di un'economia burocratizzata. Il decentramento di Deng mi sembra invece funzionale e pertanto diverso da quelli passati. Esso affronta, sia pure in modo parziale e contraddittorio (in quanto aggredisce le rigidezze dell'economia pianificata dal lato delle imprese, iniziando la riforma dalla periferia anziché dal centro), i difetti fondamentali, strutturali, del mo¬ dello sovietico. Questi difetti sono ben noti (anche ai Sovietici). Una pianificazione centralizzata che operi al di fuori del mercato e che non sia fondata su un sistema di prezzi che riflettano le scarsità relative delle merci, i costi di produzione reali e la domanda del mercato, tende inevitabilmente a fare scelte irrazionali e costose. In questo modello *burocratico», inoltre, la mancanza di stimoli positivi o negativi per le imprese e gli individui, l'assenza cioè di incentivi e premi per chi fa bene, e delle necessarie punizioni, fallimenti o licenziamenti, per chi fa male, atrofizza l'attività dei dirigenti e dei lavoratori. Come insegnano decenni di esperienza sovietica, il sistema si rivela tanto più inefficiente quanto più l'economia diviene tecnologicamente matura e complicata. Quando lo sviluppo incomincia a dipendere da fattori intensivi, di progresso tecnologico e organizzativo, più che da fattori estensivi o quantitativi, il modello sovietico annaspa e rallenta. Questi i difetti, a tutti noti, del sistema sovietico. Ma uscirne è difficile, per la resistenza delle burocrazie minacciate dalla riforma nei loro poteri, come per il timore che dal cambiamento del sìstema economico, che equivale a una redistribuzione dei poteri economici reali (a danno dei vertici di partito e di governo) derivino nuove domande di liberalizzazione anche politica. Per queste ragioni le riforme progettate a metà degli Anni Sessanta dall'Unione Sovietica e dai suoi satelliti europei furono bloccate dal Cremlino. Che probabilità ha, la Cina di Deng, di avere successo là dove gli altri Paesi comunisti, con la sola eccezione, forse, dell'Ungheria, hanno fallito? Sui Paesi europei satelliti dell'Urss, la Cina ha il vantaggio di essere indipendente dalla severa sorveglianza dei guardiani sovietici; e sull'Urss ha il vantaggio di essere un Paese molto meno sviluppato: è meno arduo cambiare strutture meno massicce é meno rigide. Tuttavia, le remore presenti negli altri Paesi comunisti non sono assenti neanche in Cina. Per esempio, Deng ha accompagnato alla riforma economica una stretta repressiva contro i dissidenti, così come, nella Russia del 1965, l'avvio della riforma economica di Kossighin (poi sospesa) fu accompagnato da un duro giro di vite di Brezhnev contro gli intellettuali. E ancora: il tema della riforma di Deng si è ora intrecciato con quello del «riaggiustamento*: questo termine è usato dai Cinesi per indicare non soltanto una drastica riduzione dei troppo ambiziosi piani d'investimento in nuovi impianti, che ha portato alla cancellazione di alcune colossali commesse all'estero, ma anche, nell'ultimo anno, a una certa frenata della riforma stessa: sono state infatti ridotte le nuove autonomie finanziarie e di sviluppo delle imprese e sono stati di nuovo rafforzati i poteri del piano statale. Insomma, fatti due passi avanti sulla via della riforma, presto ne è stato fatto uno indietro. La riforma Quest'altalena ha provocato in molti esperti occidentali un notevole pessimismo. Mi sembra però che essa incida per ora soltanto marginalmente sulla riforma, pur essendo un segnale d'allarme che dice quanto sia difficile fare riforme a metà, quanto sia arduo imboccare l'orbita d'uscita da un sistema centralizzato come quello sovietico. Nonostante queste difficoltà, la riforma di Deng appare ancora capace di cambiare drasticamente il modello sovietico e di realizzare un modello nuovo, senza precedenti per il •socialismo reale*. La riforma di Deng è molto complessa. Essa consiste anzitutto in un radicale spostamento dei rapporti di scambio tra la città e la campagna, attraverso l'aumento dei prezzi d'acquisto dei prodotti agricoli delle Comuni da parte dello Stato, mentre si consente ai contadini di sviluppare la produzione privata degli appezzamenti familiari, un poco ingranditi, vendendola sul libero mercato, e di costituire cooperative di produzione. La riforma modifica un altro fondamentale rapporto tipico delle economie di tipo sovietico: da due anni in Cina l'industria leggera si sviluppa molto più rapidamente di quella pesante, e questa è poco meno che una rivoluzione. Qui il tema del 'riaggiustamento* si fonde e intreccia con quello della riforma. I dati sono significativi: il valore della produzione dell'industria leggera è passato dal 43,1 per cento della produzio- l ne industriale globale nel 1979 al 46,9 per cento nel 1980. Nel 1980 il valore della produzione dell'industria leggera è cresciuto del 18,4 per cento rispetto al 1979 (si tratta di valori monetari: ma ci fu un'inflazione valutata tra il 6 e il 10 per cento), mentre il valore della produzione dell'industria pesante, secondo gli stessi criteri, aumentava soltanto dell'I,4 per cento. Nel 1981 continuano ad operare queste -forbici*, con l'industria pesante stagnante o in diminuzione e l'industria leggera ancora in crescita. Si tenga poi presente che in Cina l'industria leggera è spesso -collettiva* e non statale; come tale è gestita da enti locali, urbani o rurali, ed è meno vincolata dai rigidi controlli della pianificazione. Quest'industria .collettiva* è abitualmente meno produttiva e più arretrata di quella -statale*; tuttavia, proprio questo è il settore che, in regime di riforma, cresce più in fretta: secondo -China Quarteria*, nella prima metà del 1980 l'industria 'Collettiva* crebbe del 23,6 per cento, quella-statale* dell'11,3. La stessa industria statale è sottoposta dal 1979 a un imponente esperimento di -decentramento*, inteso come sviluppo dell'autonomia finanziaria e gestionale delle imprese. Questo 'esperimento* è stato applicato a 6000 imprese statali su un totale di 83.000; ma gli esperti ci dicono che le imprese 'riformate* sono le più forti e le più avanzate, tanto che il 60 per cento della produzione industriale cinese usciva, nel 1980, da queste imprese riformate, nelle quali vi è un legame tra i profitti d'impresa, il livello dei salari e il livello degli investimenti autonomamente decisi e finanziati dall'impresa stessa. Fiducia Anche in un sistema di prezzi rigidi e irrazionali sostanzialmente immutato, questi cambiamenti hanno dunque inciso profondamente sull'economia cinese. Hanno anzi inciso forse troppo. Nel 1979 è infatti esplosa l'inflazione, mentre il bilancio dello Stato è andato in rosso: ma proprio questa crisi dice che si è trattato di vera riforma. L'offerta di beni non poteva soddisfare una domanda che era molto cresciuta, sia perché le masse contadine disponevano per la prima volta di un pur modesto margine spendibile di reddito (e chiedevano o sognavano biciclet te e macchine per cucire), sia per l'accavallarsi dei troppo ambiziosi piani d'investimento e sviluppo delle imprese. Si tenga anche presente che le 29 province della Cina sono, per certi aspetti, meno integrate economicamente dei 10 Paesi della Cee. Il groviglio di privilegi di questi feudi economici e la mentalità protezionistica delle burocrazie provinciali sono altri ostacoli ad una riforma che vuole creare spazi ad un nuovo *mercato socialista*. In queste circostanze, un periodo di 'riaggiustamento* era inevitabile. Non pochi esperti occidentali ne traggono però previsioni pessimistiche sul futuro della riforma, che ritengono incapace di passare dalla sfera 'microeconomica* delle imprese una sfera 'macroeconomica», che richiederebbe una riforma dei prezzi e la riduzione dei poteri del Piano. La riforma potrebbe anche portare alla chiusura delle imprese inefficienti e al licenziamento dei lavoratori: questo è difficilmente accettabile in un Paese dove i di¬ s soccupati nelle città sono probabilmente già dieci milioni, e dove la disoccupazione continua ad aumentare. Per queste solide ragioni, come per la resistenza dei burocrati timorosi di essere -espropriati* dei loro poteri tradizionali, la riforma può entrare in crisi. Cionondimeno, i dirigenti cinesi ci hanno presentato un quadro fiducioso. Nei prossimi anni, ci ha detto a Pechino Fu Zihe, continuerà la forte riduzione degli investimenti in nuovi impianti (nella misura, ci è stato detto, del 40 per cento); ma andranno avanti le altre direttive della riforma che pri¬ vilegiano l'agricoltura e l'industria leggera, mentre si tenteranno di eliminare i •colli di bottiglia* allo sviluppo (energia, trasporti, telecomunicazioni) e si continuerà a dare spazio alla nuova piccola imprenditoria privata o cooperativa, che opera con successo nel campo dei servizi. Sarà anche portata avanti con impegno l'apertura verso l'estero, attraverso l'approvazione di nuove •joint ventures* con imprese capitalistiche straniere e mediante lo sviluppo delle 'Zone economiche speciali* predisposte per queste iniziative. E' difficile dire se, alla fine, avrà ragione lo scetticismo degli osservatori occidentali o l'ottimismo dei dirigenti cinesi. I primi non hanno torto quando dicono che è difficile fermarsi «a mezzo il guado*. 1 secondi hanno problemi concreti, economici o politici, che non possono ignorare. Che vi saranno compromessi e nuove 'altalene* mi sembra probabile. Ma il punto centrale di queste oscillazioni appare comunque spostato radicalmente in avanti, ed è probabile che lo sperimentalismo antidogmatico di Deng reagisca istintivamente alle difficoltà con nuove innovazioni. E' vero però che nel futuro dell'economia, e quindi della politica cinese, vi sono moltissime incognite, moltissimi imprevisti. La cooperazione dell'Occidente può contribuire a far piegare la bilancia delle riforme di Deng dalla parte del successo. E hanno ragione i Cinesi quando dicono ere dal rafforzamento della Cina dipende anche il consolidamento degli equilibri mondiali, che è nell'interesse di tutti noi. Arrigo Levi

Persone citate: Deng Xiaoping, Khrushchev, Kossighin, Mao