Morte di Harlem, la città nera di Furio Colombo

Morte di Harlem, la città nera SILENZIO E UNIFORMI DA GUERRIGLIA NELLE VIE Morte di Harlem, la città nera NEW YORK — E' un delirio felliniano quello che vedo per le strade di Harlem. Mi camminano intorno uomini giovani vestiti da guerriglia. Mi domando da dove avranno importato il berretto grigioverde a visiera che era diventato celebre a Cuba, ai tempi della Sierra e della battaglia di Santa Clara. «Angola», qualcuno mi dice. Non viene da Cuba la suggestione dell'uniforme da fatica che sembra la moda dei giovani ad Harlem. Viene dalle fotografie e dai film sull'Angola. Forse porta orgoglio, questa moda, ma non porta sorriso. Facce chiuse, in guardia, sono l'espressione che vedo intorno. Anche se c'è un bambino sulle spalle, una ragazza per mano, non ci sono sorrisi. Neppure tristezza. E' come se vi fosse la consegna di restare estranei. Il senso di irrealtà è più grande nella folla di donne. Arrivano a gruppi di trenta o quaranta, come nella casbah, come hanno visto nel film «La battaglia di Algeri», che ogni tanto ritorna nei cinema del quartiere. Sono vestite da casbah, infatti, con il volto coperto. Oppure secondo il modello di una tribù africana. Dicono che le ragazze vanno alle Nazioni Unite e si fanno mostrare disegni della Nigeria, del Ghana. Qui, alla Centovenricinquesima strada, a un quarto d'ora dalla parte migliore di Park Avenue, a cinque minuti a piedi dalla Columbia University, le ragazze portano piccoli anelli d'oro al naso (è stato perforato da esperti che dicono di essere stati in Africa) e orecchini con cerchietti pesanti fatti per estendere il lobo secondo una tradizione antichissima. Lo sciame di donne col chador bianco e col chador azzurro, gli anelli e gli orecchini che risplendono al sole, invade gli spazi liberi, ti circonda, ti si mette davanti. Non si sentono voci o risate o un segno di scherzo. Questo silenzio, non la stranezza di un simile modo di vivere in mezzo a New York, produce un senso di incubo, di sogno pesante. ★ ★ Ogni fine d'estate Harlem celebra le sue strade. «E' il nostro secondo rinascimento» dicono i manifesti. La piazza in cui avviene la festa è nel centro, lungo la Centoventicinquesima strada. Da un lato si può vedere un edificio nero di abbandono e d'incendio che era il Savoy. Lana Turner e Greta Garbo venivano al Savoy a ballare tutte le sere. «Piedi felici» era il soprannome che la Turner aveva dato a quel posto. «Nessuno al mondo balla come ai "Piedi felici"» ha scritto l'attrice al suo agente di Hollywood narrando le avventure notturne in una lettera del 193& Tutti al mondo conoscono i nomi di chi suonava là dentro, Benny Goodman, Duke Ellington, Louis Armstrong, Count Basic, Lionel Hampton. Questi nomi, qui, non hanno una strada o una lapide. La solitudine di Harlem è anche lo strappo dal suo passato. Sono morti gli edifici, sono morte le strade, sembrano dire le facce Perché dovremmo celebrare cose che non esistono? Stanno finendo di costruire il palco per le orchestre che dovranno venire qui per la festa. I tecnici, i carpentieri e i fonici che montano in fretta gli altoparlanti sono tutti bianchi. I ragazzi negri con le divise cubane, le ragazze in chador occupano tutto lo spazio, arrivano fino a pochi metri dai tecnici ma riescono a non vederli. Se un bambino scappa di corsa fuori dalla folla, qualcuno lo afferra e lo tiene perché non vada a farsi carezzare la testa dai bianchi. Il bambino scruta gli adulti, impara il modo di guardare chiuso e senza conta tto. Ma un applauso che passa come un colpo di vento saluta due uomini neri che arrivano sul palco e alzano una tela dipinta. Mostra il sole, i pianeti di una strana costellazione E' il vessillo di Sun Ra, il compositore negro che sta per aprire la festa con il suo jazz magico. Il giorno della proclamazione del festival la Associated Press ha pubblicato una statistica che arriva da Washington. Dice che il 5096 dei giovani negri non ha lavoro. Anelli d'oro e chadors sono forse una vendetta contro quella statistica. Le case demolite, le case bruciate gli interi isolati dove non abita più nessuno rendono più facile, dal palco preparato per celebrare la festa, guardare intorno e ritrovare i luoghi di Harlem. Erano tutti qui a pochi passi. La facciata della Harlem Opera House c'è ancora, anche se dietro c'è il vuoto. In qualche punto la stuccatura dGsiacrbdeimaq1ppvRl«tevg dorata si vede. Diceva Arthur Goldberg (il giudice, l'ambasciatore che da bambino viveva in una Harlem dove c'era posto anche per gli emigrati bianchi): «Aveva il foyer tutto d'oro. Credo che fosse il teatro più bello di New York». Anche l'edificio del Lafayette Theatre esiste ancora, con le finestre inchiodate — era il luogo di musicisti come Scott Joplin, di attori come Paul Robeson. In quel teatro, all'angolo con la 132" strada, nel 1933 è stato presentato il film «Harlem in paradiso». Tutta New York è venuta alla «prima». John D. Rockefeller, il capostipite, ha lasciato quindicimila dollari «per lo sviluppo delle arti» tanto grande era stato il suo entusiasmo per lo spettacolo. Arriva una troupe della televisione francese. Tra loro dicono che queste strade oggi fanno paura. Salutano, si guardano intorno. Sembrano orgogliosi dei buoni sentimenti. Ma il muro di silenzio vale anche per loro. Puntano la cinepresa e la luce verso il Teatro Apollo, dove nel 1935 New York veniva ad adorare due diciassettenni sconosciute, Ella Fitzgerald e Billie Holiday. Il teatro è aperto ma nessuno, forse neppure qui nel quartiere, conosce i nomi formati a lettere componibili sul cartellone. Mancano quasi tutte le lampadine. Vedo che la troupe dei francesi ha portato la stessa guida che ho usato io, «Harlem, the black metropolis» di Jervis Anderson, dove si racconta tutto ciò che Harlem è stata dal principio del secolo fino a dopo la guerra. Ma è una guida che ormai non serve. Qui, dice Anderson, ogni due o tre negozi, c'era l'atelier di un pittore (alcuni sono al Whitney o al Museum of modem art, adesso, ma nessuno li ricorda come «la scuola di Harlem»). Qui vivevano, negli stessi anni, Ralph Ellison, Richard Wright, Langston Hughes, James Baldwin. E Clifford Alexander, che con Kennedy è stato viceministro della Difesa. «Si chiamava "il rinascimento" allora — mi spiega Sun Ra prima del suo concerto — e lo chiamano rinascimento anche adesso. Ma adesso è una povera bugia. Lo sapeva che più di cinquecentomila negri hanno abbandonato New York, decine di migliaia hanno lasciato Harlem, dall'ultimo censimento?». Sun Ra ha disegnato i suoi costumi come in certi mosaici di Bisanzio, ma l'applauso immenso che lo accoglie significa che il suo costume appare africano alla gente. «Dieci re africani sono fra noi», annuncia un giovane speaker, anche lui vestito come un cubano. Vengono avanti dieci uomini in caffetano bianco, con i capelli bianchi, l'aria distratta di una lontana aristocrazia. La gente grida, li invoca. «Io non ho nostalgia per il passato — mi dice Sun Ra. — Harlem, la città nera, è morta. Il dramma comincia adesso». Aveva cinque giornali, Harlem, al tempo del suo «rinascimento», due grandi alberghi, il «Cotton Club» che era tra i più snob di New York, il salotto di madame Walker, «il più colto» dice Ralph Ellison. Dall'alto del palco di legno vediamo, lontane, le case nuove costruite da «architetti stranieri», come dicono qui. «Architetti che non conoscevano Harlem — spiega Sun Ra. — Non sapevano che separando la gente dentro torri da incubo, distruggendo le piccole case disposte in fila l'una accanto all'altra, dove le famiglie si vedono e si conoscono, avrebbero favorito la vita di bande, il terrore della solitudine, la violenza». * * «Se c'è una vita e una civiltà negra, oggi è andata lontano», dice Sun Ra facendo un gesto verso il cielo, pensando forse alla Georgia, ad Atlanta, alle migliaia di negri che sono tornati nelle campagne e al Sud. E' vero. Ma più d'un milione di nuovi negri sono arrivati a Harlem e in altre zone povere di New York. Sono i giovani delle statistiche, sono le pattuglie in uniforme cubana e le ragazze in chador, che non possono rompere il muro e allora lo esaltano rendendosi definitivamente diversi. «Siete voi tutti, buoni o cattivi, generosi o egoisti, non conta, siete voi che li avete creati — dice Sun Ra indicando i ragazzi in divisa. — Ma non sono loro il pericolo, non per adesso. Almeno loro hanno una faccia, una identità, l'immagine esteti¬ ca di un modo di vivere. Potete dire che è il frutto ingenuo della televisione. Che è infantile, ma è sempre una immagine. Là dentro però c'è un mare di gente senza faccia e senza vita... ». Sun Ra sorride come i re africani, remoto e scettico, come se parlasse di un pianeta diverso. Dice: «Per voi è un bel pericolo». La sua orchestra è una esplosione di suoni. Nel momento esatto in cui il sole tramonta, la sua veste d'oro abbaglia di luce. Allarga le braccia. Con le mani, in sequenza, indica quattro punti. Pensa, credo, ai punti cardinali, ai riferimenti fisici e astrali che gli piace dare alla sua musica. Uno dei punti è l'angolo della 14S" strada, dove, le statistiche dicono, c'è un omicidio al giorno. Un altro punto è la casa con le finestre inchiodate dove Orson Welles, a vent'anni, ha fatto la sua prima regìa, «Woodoo Macbeth», usando solo gli attori negri. Si vede una montagnola di pietre e mattoni, dove c'era il Colony Club e dove i leaders politici di Harlem tenevano riunioni. La «Abyssinian Church» di Adam Clayton Powell, uno dei grandi predicatori del rinascimento di Harlem, c'è ancora. Il pastore di adesso guarda la festa e la folla e l'orchestra di Sun Ra da lontano, voltando le spalle a una grande croce di vetro illuminata dal sole. Alcuni ragazzi saltano da un camion del «New York Post» per strillonare il giornale. Tut ta la prima pagina annuncia che è morto Roy Wilkins, l'ultimo leader dei diritti civili e di Harlem. Furio Colombo