Anni di piuma

Anni di piuma L'AGENDA DI F & L Anni di piuma Sarà senza dubbio un premio meritato, giusto, sacrosanto; ma a noi che siamo qui, tardivamente seduti sulla sabbia già ormai un po' freddina di fine settembre, dove non giungono che echi attutiti di festival e giurie e intrighi e pettegolezzi e applausi in sale e salette di proiezione, a noi che non abbiamo visto nessuna delle opere in concorso e ne sappiamo solo quel tanto che ci concedono scirocco o libeccio strappandoci il giornale di mano, a noi che di cinema siamo vecchi e disinteressati consumatori, e nulla di più, questo «leone» assegnato a un film che si chiama «Anni plumbei» fa l'effetto di un tuffo nell'anche troppo recente passato. Oddio — è la prima reazione — già ci risiamo con l'impegno, già si ricomincia col 2 novembre Cerchiamo allora di farci coraggio. Il titolo? Un po' sul pesante, d'accordo. Ma ricordiamoci che anni fa vedemmo per caso un film di un giovane regista inglese che s'intitolava «Momenti tetri» e che era bellissimo. Bellissimo era anche «Le coup de gràce», sulla guerra dei freikorps nei paesi baltici, diretto, guarda guarda, dal marito della Von Trotta (o di una delle sue attrici? il vento ha trascinato la pagina laggiù, contro quella barca capovolta). E poi chissà che recitazione superba. E chissà com'erano gli altri film. Non si può dire, ci ripetiamo, non si può giudicare finché non si è visto. E in verità non è il film specifico, bellissimo o noiosissimo, titolo o non titolo, a deprimerci. E' un dubbio più generale, un sospetto più complicato. Anche se fra qualche mese, in una sala di seconda visione, ne saremo affascinati (tu credi? con quelle due sorelle che discutono dal principio alla fine? e senza farci vedere — finezza delle finezze — una sola azio ne terroristica? mah!) anche se, tutto essendo possibile, questi «Anni plumbei» c'inchioderanno visceralmente e intellettual mente alle nostre poltroncine di similpelle, anche in quel caso il dubbio resterà, il sospetto roderà: se per esempio quest'anno a Venezia ci fosse stato in concorso «I soliti ignoti», gli avrebbero dato il «leone»? Furio Scarpelli, che insieme a Age sceneggiò quel gioiello e che siede con noi sulla spiaggia deserta, elude si lendo le nostre provocazioni. L'ipotesi non è proponibile. «I soliti ignoti» non è ripetibile. Altri tempi, altro clima. Ogni tanto qualcuno vorrebbe riprovarci, scrive, prende smaniosi contatti per una riduzione a musical, per una trasposizione a Harlem, per un aggiornamento, un remake. Sulla carta, il canovaccio è perfetto, la storia di quella banda di ladruncoli sprovveduti che si atteggiano a master criminals, ha una linearità, una semplicità da commedia classica, come i gemelli scambiati o il soldato vanaglorioso. Ma poi, come appunto un classico, ci si accorge che è meglio non toccarlo, ogni operazione di ringiovanimento si rivela irrealizzabile. Nel 1957 era ancora possibile presentare dei malviventi in una luce affettuosa, dice Scarpelli, e raccontare le loro gesta in un tono divertito. Era, in fondo, una metafora dell'Italia di allora, sulla soglia della «civiltà moderna» ma con una gran fame arretrata da smaltire, le pezze e gli stracci smessi da poco. E' straordinario quanta parte abbia avuto la fame nel cinema comico italiano di quegli anni, non mancava mai una scena con sfilatini enormi, immensi piatti di spaghetti, e l'eroe che si giocava il posto, l'avvenire, o rinunciava a una procacissima bionda, per una zuppiera di pasta e fagioli, una pizza dal diametro monumentale. Oggi, la fame come molla comica ha finito di funzionare. E con quale credibilità si metterebbero in scena dei malviventi simpatici? Non c'è spettatore che non sia stato vittima, direttamente o indirettamente, di criminali grandi e piccoli; e li teme, non esce la sera, blinda la porta di casa, sa che rischia pestaggi, coltellate, la pelle. Una banda di delinquenti imbranati, non affiliata a qualche mafia o camorra, dovrebbe essere composta, per verosimiglianza, da tossicomani o teppisti col polso che trema e il colpo che parte. Come si fa a scherzare su queste cose? Agli scherzi Scarpelli ha dedicato la vita come altri la dedicano ai lebbrosi La cosa cominciò, ci racconta, dai giornali umoristici. Ragazzetto, collaborava con disegni e battute al «Marc'Aurelio». Nel dopo¬ ggliPmFfaStliergdsodpbtqmtndlrlnitcspscclcnpgr guerra diresse perfino un foglio anticlericale, «Don Basilio». L'«Avanti!» (diretto da Pettini) pubblicava regolarmente le sue vignette politiche. Frequentava la leggendaria farmacia di Garinei in piazza S. Silvestro, a Roma, formicolante di barzelletti eri, umoristi goliardici, caricaturisti, giornalisti e poeti satirici, gagmen, scrittori di canzoni e riviste, sceneggiatori di avanspettacoli, registi di varietà In questo ambiente un po' sottobosco e un po' vivaio, nel disordine, nel chiasso, nell'improvvisazione, in un calderone becero e irriverente, in compietà spontaneità e casualità, nacque il cinema comico italiano, massimo fenomeno di creatività e genialità collettive che la nostra cultura abbia prodotto dopo la commedia dell'arte e l'opera buffa. Nessuno se ne accorse, naturalmente. Gl'intellettuali dell'epoca, con l'impegno e il 2 novembre che già gli oscurava il ciglio, cercavano piuttosto il tartufo nazional-popolare du coté di Luchino Visconti, squisito duca impegnato a ridurre per lo schermo quel raffinatissimo romanzo d'avanguardia che è «I Malavoglia». Nessuno capì niente, come al solito. Ma Scarpelli sorride dietro le sue spesse lenti. Non ce l'ha con nessuno, non parla male di nessuno, non recrimina, non si pone problemi di status, non gli servono riconoscimenti. La modestia gli aderisce come una muta da sub. Noi stessi, dice, ci sentivamo a distanza astronomica dal «vero» cinema, formiche sul gradi- no più infimo della scalinata di marmo. Cucinavamo le nostre farse e farsacce, costruivamo i nostri pazzeschi personaggi, le nostre folli estrapolazioni, pescando però sempre da quello che ci vedevamo intorno, incoscienti, ispirati. Ridevamo, ci divertivamo, che si poteva pretendere di più? Erano anni di piuma. Ci pareva normale che i critici, gl'intellettuali, gli araldi di capolavori, ci guardassero dall'alto in basso, ignorassero il nostro lavoro. Del resto, era inevitabile in un paese che è rimasto per così dire sottosviluppato in fatto di serietà Gli italiani escono affranti dalla conferenza del trombone, ma ne hanno soggezione e in fin dei conti lo stimano più del pagliaccio che li ha fatti ridere. Hanno terrore di apparire frivoli, vacui, irresponsabili, cialtroni, ignoranti. Forse perché lo sono? Scarpelli non è così drastico, li ha messi in scena tante volte, li ama. Ma sa che si scappellano automaticamente davano a quelle che ritengono «le cose serie». Sa che mentre i cineasti come lui producevano negli anni di piuma opere di prodigiosa vitalità gli araldi salutavano soltanto le «prove» di pensosità e profondità umanopoliticosociale, annunciavano intere reti metropolitane scavate nel sottosuolo dell'anima e nel magma dell'inconscio, esaltavano i film coraggiosi, problematici, denuncianti, analizzanti, dissacranti, mettenti a nudo, di cui oggi nessuno si ricorda più, o quasi. Ci fu un breve risveglio un paio d'anni fa. Deposte le trombe, gli araldi si guardavano intorno perplessi Ma come, il cinema italiano non sapeva più ridere? Dov'erano andate l'ironia, la satira, la spensieratezza, il buonumore? Tutto a un tratto, quelle trascurabili qualità divennero importanti, indispensabili. Giù allora col gioco e la seduzione, giù con le retrospettive e i ricuperi. Basta che siano passati venti o trent'anni e ci si può scappellare davanti a un lazzo d'antiquariato, a una facezia di scavo. Sarà un caso, osserviamo, ma non appena tre o quattro nuovi talenti comici si sono presentati sulla scena, e un fiotto di nuovi scherzi ha riempito le sale, ecco che gli araldi a Venezia, premiano con un'ovazione unanime un film che si chiama «Anni plumbei». Ma Scarpelli, equanime, dice che non si può sapere, che bisogna prima vederlo. Ma lui andrà poi davvero a vederlo? Come no? Sorride malizioso, e sembra uno di quei suoi personaggi irripetibili degli anni di piuma. Carlo Frutterò Franco Lucenti ni

Persone citate: Carlo Frutterò, Furio Scarpelli, Garinei, Luchino Visconti, Scarpelli

Luoghi citati: Italia, Roma, Venezia