Trieste, avamposto dimenticato di Guido Ceronetti

Trieste, avamposto dimenticato LETTERE DALL'ITALIA Trieste, avamposto dimenticato Dopo qualche giorno nell'insensata kermesse turistica veneziana, tra un micidiale commercio tagliaborse e un fastidioso abbacinamento culturale (il Maelstrom-Cultura vuole risucchiarti, annientarti, non svegliarti alla conoscenza), senza contatti umani perché quella folla che, sotto l'occhio e la guida dei predatori, ride e mangia, è un immenso idiota policefalo tutto in difesa della propria paura di essere scoperto, tradito, violato, e incontrarne il non-sguardo non dà certo piacere, arrivare a Trieste è un riposo immediato nel grave, nel rispettoso, nel composto, nel vero. Venezia ha venduto la sua anima da molti anni (forse l'aveva già persa prima di Campoformio, o gliene restava poca); Trieste ha conservato la propria, acquistata con sforzo, con disperazione, contro un destino storico che gliela mostrava di lontano, costringendola a meritarsela nella polvere. Difficile capire Trieste, se non si capiscono e amano certe tristezze e certi vuoti d'anima impervii dei luoghi battuti dalle passioni e resi secchi da un clima interiore avverso. Anche Gerusalemme è diventata a prezzo di inaudito sforzo Gerusalemme: non era gran cosa, un caotico borgo nel deserto, una pietraia bianca... Questo Nulla si è voluto sacro, ombelico del mondo, casa di Dio, patria delle patrie. A furia di essere amata, ha cominciato a essere, come una donna brutta si fa bella per miracolo d'amore. Ma ormai il club delle città sacre italiane non riceveva più iscrizioni, chi c'era c'era... Nel secolo XIX si presentò a Trieste la grande occasione, offerta dalla nuova religione patriottica, di esserci ammessa, traccia d'inchiostro umido sotto una breve lista ingiallita: non la perse, e fu l'ultima città sacra italiana, un miracolo, e anche un votarsi a patire — a patire per un'entità illusoria, l'Unità d'Italia, che ha adoperato Trieste per corona, dimenticandosi di essere nuda. Appena Trieste pro* mossa a simbolo, la religione patriottica rotola nel fango, e il simbolo-Trieste rimane per aria, pulito ma astratto, a domandarsi: perché esisto? perché mi hanno fatto nascere? perché quelli là mi hanno abbandonato? Le grandi promozioni si pagano. Quella famosa prosperità triestina di prima del 1918 era pagata dalla furiosa insoddisfazione di essere esclusi dai valori profondi, dalla disperazione di non avere un'anima universalmente, o almeno nazionalmente, riconosciuta. Dopo il novembre 1918 Trieste ha perso materia per guadagnare anima, e oggi sarà ridotta a poco o niente ma in quanto a significare, il suo significato è intatto, più teso della pelle d'asino di un tamburo. L'assunzione tra i simboli compensa largamente la necessaria decadenza commerciale e marittima. Perché rimpiangerla? All'epoca dei grandi traffici, non c'era qui che la coda bagnata di un grande Impero di terra, un Impero di centro, di cui Trieste forniva il prodigio periferico dei suoi due fari marini. Regalarsi come porto a una penisola tutta portuale era una generosità sbagliata: non si poteva pretendere di esserne ringraziati troppo; ma se Trieste vuole essere viva come simbolo sacro ha ragione, perché tutto quel che può rappresentare è chiuso nell'intimità religiosa del processo unitario (molto giustamente definito da Salvatorelli come un moto essenzialmente spirituale), culminato, proprio nel nome di Trieste, in un rispettabile massacro, nello sbaraglio politicamente assurdo, spiritualmente ineluttabile, dell'ultima Italia cattolica e contadina. Vorrei trovare qualcosa da mettere al posto del luogo comune, ormai bene incrostato, che vuole da un lato una grande ascesa di passato absburgico e dall'altro una continua decadenza italiana di Trieste. Qui è l'apparenza dei fatti, con le sue strette misure; può essere superficialmente vero, ma non basta a capire II destino di Trieste non si compie il 3 novembre 1918 anzi comincia a scoprirsi, dopo il maggio 1943: di colpo, è trasformata in frontiera, e non soltanto italiana: di quel che ancora oggi chiamiamo Occidente. Tutto il Nord-Italia è libero, ad eccezione di Trieste, lasciata dagli Alleati occupare militarmente dalla Jugoslavia, che non pensa certo a liberare, ma soltanto ad annettere, e la cui idea di Regione Giulia slava si spinge fino al Tagliamento. Dietro la J a Jugoslavia di allora c'era la mano russa, che poi si è ritirata, ma resta paurosamente nell'ombra. Trieste è effettivamente libera solo a partire dal 1954, con la fine dello stato precario di Territorio Libero, ma amputata definitivamente della Zona B, estremo moncone istriano. Un groviglio, un labirinto... Di netto si delinea questo: la suprema importanza di Trieste come battifredo disarmato, però acceso di bella passione, dell'unità italiana e della libertà europea di fronte al subbuglio, all'enorme movimento di presa e di risucchio, al respiro di guerra asiatico. Ora, qui non hanno più senso questioni di ascese e di decadenze, di riprese e di crisi: c'è quel limite e si chiama Trieste, un fermaglio di diamante sul confine orientale, e c'è la sua paura di essere travolto, di perdere l'anima italiana, di non poter tenere se la pressione dell'ondata si farà intollerabile. Un destino difficile e doloroso, a cui si può applicare parafrasandolo il proverbio yiddish «difficile essere ebreo»: è difficile essere triestini. Ma senza difficoltà e dolore non c'è la nobiltà di un destino. * * A Trieste, dove «il Commercio dimena le sue cento lingue» (Tommaseo, il 2 novembre 1824) il bisogno di farsi un'anima non è stato soltanto la voglia di un borghese arricchito di essere ammesso tra i nobili. Tra le sue origini profonde s'intravede il brancicare di un orfano minacciato di sommersione da un'ondata, che cerca una madre che lo ripari e gli dia un nome, non inventandoselo, ma come si dà a un figlio ritrovato. Così mi spiego la forte parola tragica di un istriano sul «Caffè» dei Verri (siamo nel secolo XVIII!) citata da Pierantonio Quarantotti-Gambi ni: «Divenghiamo finalmente italiani per non cessare d'essere uomini). La nazionalità che si genera, nei letti oscuri di Psiche, da fame di braccia materne, dà vita a una passione furiosa, a una dedizione di tormento. Ecco perché «in nessuna parte d'Italia si è forse più malcontenti della madrepatria, e nello stesso tempo si teme di più di poterne essere staccati» (Giorgio Voghera): è in gioco il nome, l'identità, l'essere... L'amore non è mai disinteressato, in partenza; poi via via si affina di prova in prova e diventa puro. Fino alla Grande Guerra la strana luce di questo carbonchio triestino-istriano poteva essere ancora ricevuta da una classe politica, in Italia, nel cui midollo mediocre un po' di elettricità risorgimentale non aveva cessato di sussultare. Tra il fumo dei deliri verbali, una risposta all'appello di quel voler essere uomini a costo di qualunque errore e anche di molta rovina, si disegna. Dopo la guerra, e fino al 1943, lo «je vous ai compris» dannunzianofascista non è che la copertura di volgare grancassa di un progressivo, inarrestabile silenzio, in cui si consuma il divorzio. La democrazia repubblicana, con al centro della scena un protagonista cattolico e un deuteroagonista comunista, sanzionerà l'impossibilità del rapporto, la rottura definitiva di sentimenti, di mentalità, l'incompatibilità ideologica, surrogate da una vaga impostura. Nel 1946 il governo di Roma sprecava polveri diplomatiche per conservare qualcosa delle colonie prefasciste, invece di concentrare tutto il fuoco in difesa di una Venezia Giulia un po' meno mutilata. Valeva cdmsepdMdc certo più qualche chilometro di Istria costiera del miserando mandato fiduciario decennale su Lia Somalia! Tuttavia, non era ancora la classe politica del trattato di Osimo, e c'era l'appoggio angloamericano che temeva un Tito non ancora grande eresiarca nei confronti di Mosca. Ma questa è faccenda diplomatica, e «l'anima in tormento» di Trieste è un'altra cosa. Lo choc di Osimo sull'anima triestina è stato tremendo perché il positivo della riconciliazione con la Jugoslavia gli è apparso come fluttuante nel vuoto di un abbandono possibile della madrepatria. Formalmente, Trieste era riconosciuta come Italia dalle due parti: eppure, da quel giorno, Trieste è più esposta al pericolo, più sola. Se si abbia cura dell'ambiente triestino-giuliano, qualsiasi novità d'insediamento industriale (terminals carboniferi compresi) non può essere che disastrosa: ma nel trattato di Osimo è prevista addirittura una Zona Franca industriale mista, italo-jugoslava, tra Sesana jugoslava e Opicina-Basovizza italiana, una specie di mostruosità tumorale sopra e dentro la natura carsica, polmone verde di Trieste...Un'ubicazione simile poteva essere interpretata altrimenti che come un segno di abbandono? Se la Zona venisse spostata in basso, nella valle dell'Ospo, dove già non mancano i funghi velenosi delle raffinerie di Aquilinia, la distruzione ambientale sarebbe, forse, meno orribile, ma la questione politica non cambierebbe: con l'immigrazione e la penetrazione del meridione balcanico a Trieste il formicaio asiatico s'insinuerebbe sotto la porta orientale d'Italia, e Trieste cesserebbe di esistere. Sì, è probabile che questa sarà la sua fine, la sommersione temuta nel mare sla¬ vo... Quel che qui si chiamerebbe eufemisticamente Zona Franca, per il nazionalismo jugoslavo sarebbe semplicemente Nova Trst, la Nuova Trieste. La vecchia Trieste si spopolerebbe di italiani, in fuga lenta verso l'interno, l'avamposto deserto si riempirebbe di facce nuove... L'Italia assorbirebbe tacitamente i profughi e un giorno un nuovo trattato salderebbe la piaga, spostando il confine più a ovest. Trieste per l'Italia non è importante, perché dei simboli una mentalità materialistica non sa che farsene. Se qualcuno griderà, sarà un grido nel vuoto, nel terribile deserto dei sentimenti. Il destino del Carso è stato deciso dall'occhio di un plenipotenziario che ha sorvolato la zona in elicottero. I protocolli di Osimo erano un momento drammatico, solenne e grave di vita nazionale: sono stati discussi in aule vuote, da fantasmi, approvati da mani morte, come in uno spettacolo di Kantor. L'emotività, il senso drammatico dell'esistenza, in questa «città di pensionati» e venditrice, si sono incantevolmente risvegliati di fronte al pericolo rappresentato dagli accordi del 1975, ed è un piccolo miracolo se finora, né sul Carso né altrove, si sia impiantato il mortale bubbone della Zona Mista. Ma. guardando lontano, non vedo come Trieste potrà sfuggire a un fato, che sembra scritto, di città sommersa, la prima d'Italia a essere asiatizzata e a morire, come Svevo dice che si muore di diabete, «in un dolcissimo coma». Guido Ceronetti Trieste. La piazza Grande, movimentata dai banchi del mercato e dominata dall'austero municipio absburgico, costruito nel 1900

Persone citate: Giorgio Voghera, Kantor, Nova Trst, Pierantonio Quarantotti-gambi, Salvatorelli, Sesana, Svevo, Tommaseo, Verri, Zona Franca