Dopo i «loschi traffici» di Ambrosio la banca fu salvala dai sette Samurai di Clemente Granata

Dopo i «loschi traffici» di Ambrosio la banca fu salvala dai sette Samurai Lugano: per il piti la truffa fu consumata con l'impiegato che si è poi ucciso Dopo i «loschi traffici» di Ambrosio la banca fu salvala dai sette Samurai DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE LUGANO — Con le sue «subdole manovre», stando alle parole della pubblica accusa, Franco Ambrosio «playboy» miliardario procurò, nel 1973-74, un ammanco di circa 120 milioni di franchi al Banco di Roma per la Svizzera, qualcosa come 70 miliardi di lire al cambio attuale. Che la cifra fosse pari o no all'intero capitale sociale della banca è questione dibattuta, che essa abbia rappresentato comunque un buco clamoroso è fatto indiscusso. Come potè accadere un evento del genere? Già la magistratura italiana nell'assolvere Ambrosio tre anni or sono rispose che un ammanco di tali proporzioni non poteva essersi registrato senza una sorta di beneplacito dei vertici della banca. Ma la procura pubblica elvetica replicò che la truffa fu consumata esclusivamente per mezzo di un «patto scellerato» tra l'Ambrosio e Mario Tronconi, funzionario dell'istituto di credito che aveva bisogno di fondi per coprire i suoi conti esposti e che poi disperato pose termine ai suoi giorni gettandosi sotto il treno. Ieri al processo davanti le assise criminali di Lugano c'è stata la sfilata dei superiori di Tronconi chiamati a deporre in qualità dì testi: prima Angelo-Giacomo Arrigoni, già amministratore delegato della «Svirobank», poi il condirettore Pietro Boillat e l'avv. Franco Felder. E se non pos sono sussistere ragionevoli dubbi sulla veridicità delle loro affermazioni ('Tronconi, ha detto Boillat, fu l'unico funzionario della banca a conoscere e a tenere i contatti con Ambrosio, gli altri erano all'oscuro di tutto»), almeno un ragionevole dubbio può sorgere sulla rinomata effi cienza di qualche branca del sistema bancario svizzero. E' bastato un vicedirettore e ancorché tecnicamente abile come Tronconi con la pre sunta regia di uno scaltro in dividuo come l'Ambrosio per mettere a repentaglio non solo la reputazione, ma l'esistenza stessa di un istituto di credito posto che, quando per una serie di circostanze fortuite si venne a conoscenza dell'ammanco, Arrigoni esclamò: «Siamo nella bagna, siamo morti, rovinati, adesso dobbiamo chiudere». Arrigoni ha fatto davanti ai giudici una serie di dichiarazioni che sono suonate un po' come autocritica e le stesse cose ha ripetuto Boillat anche se con tono più sfumato. L'amministratore delegato ha affermato per esempio che le strutture organizzative della «Svirobank» «non avevano una sufficiente professionalità» e che c'era fondamentalmente «una deficienza, una pecca»: la persona che programmava la concessione dei crediti (Tronconi) era la stessa che doveva giudicare dell'affidabilità del cliente. Quest'ultimo controllo di solito è affidato a un ispettorato, ma all'epoca dei fatti l'ispettorato era stato appena istituito, non funzionava ancora a dovere e Tronconi in pratica controllava se stesso accumulando un potere di cui fece un uso «disgraziato». Sicché, è stata la conclusione di Arrigoni. il funzionario poi suicidatosi poteva fare con grande disinvoltura tutte le manovre contabili che credeva opportune: falsificare e manomettere, sottrarre dal conto di un cliente per coprire quello di un altro, sfuggendo per oltre un anno alle maglie degli accertamenti superiori. E fu tale l'abilità del funzionario che i giudizi delle persone al vertice della banca, ignare di ogni cosa, erano positivi: »Un funzionario tecnicamente ottimo — scrivevano allora — anche se la timidezza naturale gli impedisce in qualche occasione di agire con fermezza». Giudizi che si ritorcono ora con il sapore della beffa su chi li aveva pronunciati e che ancora una volta non depongono a favore della saldezza del sistema. Arrigoni ha affermato con ironia: «Per l'abilità che Tronconi ha dimostrato nell'intrappolarci meriterebbe la medaglia d'oro». Scoperti alla fine raggiri e conseguente ammanco, la preoccupazione di chi stava al vertice fu di nascondere tutto per evitare panico tra la clientela, con corse affannose agli sportelli e cercare nel più breve tempo possibile le coperture finanziarie per riempire il buco. Operazione condotta in gran silenzio dai «sette samurai» cosi come erano chiamati i sette alti dirigenti della «Svirobank». Arrigoni ha ricordato di aver bussato alle porte del Vaticano che per mezzo dell'istituto per le opere di religione ha il 51 per cento delle azioni della banca, di aver bussato alle porte del prof. Ventriglia e dell'avv. Barone del Banco di Roma per l'Italia titolare del restante 49 per cento e di aver avuto in breve tempo ciò che gli occorreva. Il presidente delle Assise criminali ha osservato con severità: 'Avete rispettato le "leggi" della banca non quelle federali che vi imponevano di denunciare alle autorità l'ammanco». Risposta dei testi: «Lo abbiamo fatto anche per i trecento dipendenti della "Svirobank", non potevamo gettarli sul lastrico». E Ambrosio? Nell'udienza di ieri è intervenuto alcune volte per contestare, puntualizzare o far capire che aveva una certa dimestichezza con i vertici della banca come quando ha sostenuto: 'Una volta con padre Eligio e suo fratello andai persino in Vaticano per trattare un acquisto di dollari che dovevano finire alla "Svirobank"». L'accusa ha replicato: 'Falso, in quell'occasione parlaste soltanto di calcio». Oggi deporrà il radicale Franco De Cataldo chiamato dalla difesa dell'imputato. Clemente Granata Lugano. Dura requisitoria del p. m. contro il finanziere Franco Ambrosio (Telefoto)

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