Haig, generale di ferro e diplomatico di velluto di Aldo Rizzo

Haig, generale di ferro e diplomatico di velluto CHI E' DI SCENA Haig, generale di ferro e diplomatico di velluto Quando veniva a Saigon, un po' meno di dieci anni fa, nella fase cruciale del disunpegno americano dal Vietnam, Alexander Haig non si sapeva come considerarlo con esattezza. Certo, egli era il «vice» di Kissinger, allora consigliere per la sicurezza e responsabile del negoziato con i nord-vietnamiti; dunque veniva essenzialmente come diplomatico. Ma era pur sempre un generale dell'esercito, che aveva personalmente partecipato alle operazioni di guerra, e nel 1966, alla testa di un battaglione, aveva vinto conno i vietcong la battaglia di Ap Gu (una di quelle vittorie che avevano alimentato a Washington l'illusione di farcela, in Vietnam). Doveva provare qualche incertezza lo stesso Van Thieu, il capo del governo di Saigon, che l'amministrazione Nixon voleva convincere a venire a patd con gli uomini di Hanoi. Infatti Van Thieu non faceva mistero di preferire Haig a Kissinger, come interlocutore; gli era più facile insistere sui rischi militari di un armistizio. Ma, alla fine di ogni visita, Haig aveva strappato a Thieu un pezzo della sua intransigenza, e il negoziato con Hanoi poteva fare un altro piccolo o grande passo avanti. (Altra questione è se, dal suo punto di vista, il dittatore sud-vietnamita non avesse ragione a diffidare di un accordo col Nord-Vietnam. Ma i giochi ormai erano fatti, Hanoi aveva vinto e si trattava di pagarne il prezzo, possibilmente a rate). Naturalmente, i soggiorni di Haig a Saigon erano superprotetti. Per noi giornalisti era impossibile avvicinarlo ed era anche difficile vederlo. Dall'aeroporto di Tan Son Nhut, un eli cottero scortato da altri elicotteri lo trasferiva all'ambasciata americana, che era vicinissima al palazzo presidenziale di Thieu. L'ambasciata era un enorme parallelepipedo di cemento, con linee verticali di piccoli oblò. L'avevano così edificata in pochi mesi, dopo che la vecchia sede diplomatica era stata praticamente invasa dai vietcong, al culmine dell'offensiva del «Tet», nel 1968, e per liberarla era stata neces' saria un'autentica battaglia Quell'episodio aveva segnato di fatto l'inizio della fine, per la drammatica avventura vietnamita, e indocinese, degli Stati Uniti. Rividi Haig, questa volta da vicino e in tutt'altro contesto, due anni fa. Fu a una cena, du rante una sua visita a Roma, una visita di commiato, perché si era appena dimesso da comandante in capo della Nato. Il padrone di casa, che aveva visto un mio documentario in televisione sul negoziato strategico Usa-Urss, mi presentò, con qualche evidente esagera zione, come un esperto di questioni militari. Io portai il discorso su quei lontani, e ormai persino struggenti, in un certo senso, ricordi di Saigon. Haig ebbe un sorriso stanco o distratto, col che si liberò dell'ar gomento. Avremmo invece avuto modo di parlare, mi preannunciò, della strategia Est-Ovest. Ora poteva sembrare un militare puro. Dopo quattro anni passati a Bruxelles, al quartier generale della Nato, la sua tesi di fondo, quale fu espressa ai commensali tutti, era che l'Urss avesse spostato a suo fa vore i rapporti di forza, diventando definitivamente una «potenza globale», e che l'Occidente, l'America in primo luogo, dovesse prenderne atto, comportandosi in conseguenza. Ma non era solo l'opinione di un militare, che aveva sfogliato per quattro anni i più segreti rapporti ed era arrivato a certe conclusioni nel gioco inquietante, e sempre mobile, mutevole, degli «scenari» di guerra. Era anche, o soprattutto, un programma politico. Infatti Haig se ne andava anzitempo dalla Nato, prendendo le distanze dalla dilemmatica e già declinante amministrazione Carter. Che avrebbe fatto in America? Si sarebbe guardato intorno, avrebbe riflettuto. Tutti capimmo che puntava alla presidenza. Alla Nato, del resto, era arrivato attraverso un itinerario essenzialmente politico. Un itinerario lungo e anche singolare. Rientrato a Washington dopo la fase di comando militare in Vietnam, era stato presentato da Fritz Kraemer, un analista politico che lavorava per il Pentagono, a Henry Kissinger, che stava mettendo insieme il suo staff al «National Security Council». Kissinger lo assunse come consulente militare, ma il suralitailBdpecHsndldcfctsdmFcggsactsrvlstnscafcMpg suo campo d'azione si ampliò rapidamente, oltre la stessa politica estera. Infatti, quando l'onda montante del «Watergate» travolse il Chief of Staff della Casa Bianca, Haldeman (una sorta di segretario generale della presidenza), Nixon, in attesa di essere travolto lui stesso, volle che il posto fosse preso da Haig. Come anche i suoi avversari hanno riconosciuto, il generale svolse il suo nuovo e difficile, persino drammatico, lavoro in maniera lineare: fedele a Nixon, ma senza sporcarsi le mani. Dicono che alla fine fu lui, più di ogni altro, a convincere Nixon dell'ineluttabilità delle dimissioni; col risultato, per quel che lo riguarda, che lo stesso Nixon raccomandò al nuovo presidente, Ford, di conservarlo nella carica. Ford non se la sentì di spingersi fino a tanto; ma lo designò al comando della Nato. Se poi si dà uno sguardo alla sua biografia privata, riaffiora anche lì quella sua certa duplice natura. Figlio di un avvocato cattolico di Filadelfia, decise a soli quattro anni che sarebbe stato un militare e non valsero a dissuaderlo, fino all'età dell'Accademia, le insistenze della madre perché intraprendesse la carriera paterna. Ma, diventato ufficiale, la sua prima, vera promozione consisté nel riuscire a entrare, a Tokyo, dove prestava servizio fra le truppe americane di occupazione, nella segreteria di MacArthur. (La sua biografia privata, ora che ha 56 anni, registra anche un'esperienza come boxeur, un fratello gesuita, un matrimonio felice, tre figli, dei quali due avvocati e uno militare, una recente operazione al cuore, che lo ha guarito, con tre by-pass, da un malanno scambiato all'inizio per indigestione, colpa, dice lui, delle diciassette ore di lavoro al giorno che gli infliggeva Kissinger). Quando, alla fine di tutto questo, Haig rientrò in patria da Bruxelles, sentendosi ma tu ro per la presidenza, o almeno per la nomination repubblicana, non tardò ad accorgersi che non erano in molti a pensarla allo stesso modo. Dopotutto non era Eisenhower e la battaglia di Ap Gu conno i vietcong non era paragonabile allo sbarco in Normandia, anche se aveva fatto molte altre battaglie, di vario genere. Inoltre aveva pur sempre vissuto dal di dentro lo scandalo Watergate. Reagan, ciononostante, lo volle segretario di Stato. Il suo programma di riarmo non era in nulla dissimile da quello del presidente e così il suo progetto di un nuovo «containment» di una Russia ridiventata troppo potente. Ed era l'ex comandante della Nato. Così era persino possibile temere una militarizzazione della diplomazia americana. Ma ora la situazione, al vertice di Washington, è che c'è un ministro «civile», alla Difesa, che prospetta gli «scenari» duri, imbarazzando più volte gli alleati europei, e ce n'è uno «militare», agli Esteri, che si preoccupa di mantenere aperti i canali del dialogo internazionale. Sarà certo anche a causa dei ruoli, alla Difesa si fanno piani militari e agli Esteri si fa diplomazia, chiunque ne sia a capo. Ma è un fatto che, in un'amministrazione piuttosto impulsiva, guidata da poche idee-forza, fors'anche vitali, ma certo elementari, è un generale a rappresentare, più di ogni altro, forse compreso lo stesso presidente, il momento della riflessione più complessa: senza per questo essere una «colomba», anzi. (Haig, fra l'alno, assicura di aver letto Kant, Hegel, Locke e Montesquieu: sono in molti a dubitarne; ma chissà). In definitiva un caso Haig, un enigma Haig? Può trattarsi, semplicemente, di un'accorta gestione personale, che tuttavia può riflettere, meglio che in altri rappresentanti del nuovo potere di Washington, un più generale dilemma dell'America d'oggi, tra il richiamo della forza e la necessità della pazienza, in un mondo diventato troppo difficile per tutti. Aldo Rizzo