I roghi che devastano l'Italia

I roghi che devastano l'Italia Gli incendi modificano radicalmente l'ambiente e le regioni colpite I roghi che devastano l'Italia Passata l'emozione per il drammatico incendio dell'Argentario, si avverte un diffuso sentimento di resa di fronte a un male ritenuto erroneamente inarrestabile - Basterebbero alcuni provvedimenti e soprattutto un diverso uso del territorio per limitare i danni - Molte speranze sul piano promesso da Zamberletti Passata l'emozione per il drammatico incendio dell'Argentario (seguito da decine di incendi non meno rovinosi in Sardegna, ancora in Toscana, in Liguria) si avverte un diffuso sentimento di resa di fronte a un male ritenuto erroneamente misterioso e inarrestabile. Dopo una valanga di commenti rituali il silenzio copre la nostra incapacità di superare la soglia dell'impegno verbale per premere tenacemente su governanti e amministratori locali, costringendoli a adottare le misure richieste da molti anni. La rassegnazione è diffusa, quasi dovessimo adattarci a vivere su terre annerite e rese deserte dal fuoco. La rovina ha dimensioni storiche. Gli incendi ricorrenti modificano in misura radicale il paesaggio e l'ambiente delle regioni più colpite. Vedi la Toscana all'Argentario e all'Elba, vedi la Liguria dalla Palmaria al monte di Portofino, alle colline della Riviera di Ponente. Di anno in anno si estendono le macchie nere e violacee, si riduce il già povero patrimonio verde. In Italia le foreste (ma spesso si tratta di boschi degradati) coprono meno del 20 per cento della superficie nazionale (contro una media europea del 35 per cento) perché il fuoco distrugge da 50 a 60 mila ettari ogni dodici mesi. Fino al 1960 la media annua era di 400 «grandissimi incendi» in tutta Italia; ora è salita a 3000, e si tratta di autentiche calamità concentrate nello spazio e nel tempo. Il con fronto con gii altri Paesi eu ropei lascia allibiti: dal 1961 al 1975, quando ancora non si parlava di incendiari con fini terroristici, le distruzioni di boschi in Italia furono cinque volte superiori a quelle lamentate dalla Francia, nove volte quelle della Spagna. Siamo dunque «diversi» anche in materia di incendi boschivi. E' il caso di domandarci perché. Lasciamo aperte tutte le ipotesi sulle origini del fuoco (piromani, turisti sconsiderati, agenti di speculatori, terroristi) per fermarci su un fatto indiscutibile: gli incendi sono più frequenti, estesi, rovinosi, nelle regioni caratterizzate da forte sviluppo turistico pa- rallelo all'abbandono dell'agricoltura tradizionale, e da vaste estensioni degradate a macchia. In Liguria si contavano meno di cento incendi l'anno fino al 1960, poi la media è salita a cinquecento e le dimensioni dei disastri si sono ingigantite. Se ne ricava che la nostra «diversità» è dovuta soprattutto a una serie di errori nell'uso del territorio, cominciando da quelli dei legislatori per finire a quelli degli amministratori comunali e di non pochi urbanisti. Primo errore, di natura politica: aver favorito lo sviluppo turistico nella forma prevalente di sviluppo edilizio, esasperando le attese speculative fino a provocare l'abbandono di ogni terreno che non fosse fabbricabile. Oggi all'Argentario come sulle colline di Rapallo ogni pezzo di terreno che non sia fabbricabile è considerato poco più di un relitto e come tale abban donato. Altro errore politico di segno opposto: aver bloccato i terreni collinari rimasti intatti senza fornire ai proprietari incentivi per la loro tutela e la loro manutenzione. Le erbacce secche diventano il mezzo più veloce di propagazione del fuoco: quanti fanno la spesa di tagliarle, di arare, di potare gli alberi, non avendo dai terreni redditi proporzionati? Le proposte di parchi regionali e di aree protette, con raggiunta di un corpo di «giardinieri delle colline» (reclutati tra giovani che non intendono fare il servizio militare, tra giovani disoccupati spesso assunti da Regioni e Comuni senza compiti precisi) avevano appunto questo fine: riportare l'uomo a presidio della terra che aveva abbandonato come inutile perché non edificabile. Si trattava di sostituire al miraggio della speculazione la certezza di una serie di aiuti statali, regionali, comunali, per il miglioramento dei terreni, la ripresa delle colture, l'irrigazione, con automatica difesa dagli incendi. Dove la campagna è coltivata il fuoco non dilaga, anche questo è un fatto indiscutibile. Disgraziatamente molte Regioni hanno fatto scambiare i parchi come somme di divieti, motivando l'ostilità del le popolazioni. Molti Comuni hanno saputo soltanto imporre vincoli, senza favorire in alcun modo la difesa dei terreni collinari. In più le porzioni di territorio coperte dalla macchia mediterranea sono state solcate da strade «turistiche» che facilitano la pene trazione e la fuga degli incendiari, senza alcun dispositivo di allarme e di spegnimento. I risultati sono tristissimi Dove è passato il fuoco gli alberi di alto fusto vengono sostituiti dagli arbusti, si estendono sempre più le macchie resinose facilmente infiam mabili (altro errore, di natura tecnica, quello dei forestali che piantarono soltanto pini, senza alternarli con latifoglie e creando un ambiente straordinariamente propizio al fuoco). Gradualmente avanza il deserto e nessuno si preoccupa di ricostruire il manto verde distrutto, di ridar vita a oliveti, orti collinari, agrumeti, di ricostituire il delicatissimo ambiente del carrubo, in via di estinzione. Le leggi si limitano a imporre divieti, come quella del 1975 che vieta nuove costruzioni sBmsrvr su terreni percorsi da incendi. Benissimo, ma che ci facciamo su questi terreni arsi» Lasciandoli in abbandono favoriamo il gioco di chi va manovrando dietro le quinte per ottenere la revisione dei piani regolatori, all'Argentario come in Riviera. Ogni cittadino consapevole dovrebbe battersi per ottenere almeno due risultati: primo, interventi regionali e comunali, con contributi dello Stato già previsti, per il ripristino dell'agricoltura collinare nelle zone più minacciate dagli incendi e per il restauro della vegetazione originaria; secondo, realizzazione immediata di sistemi di avvistamento e di pronto intervento. Bastano poche persone, dotate di comunissimi apparecchi radio ricetrasmittenti, per sorvegliare migliaia di ettari dalla sommità delle colline. Basta una rete di serbatoi, alimentati da acqua piovana e collegati a tubazioni con prese per idranti, per bloccare il fuoco nei punti strategici. Un solo serbatoio di cemento armato, a basso costo, contiene l'acqua di cento autobotti, di venti aerei tipo «Canadair» che costano miliardi, non possono operare di notte né con vento fortissimo, provocano danni al terreno perché scaricano acqua di mare o liquidi nocivi. Zamberletti ha promesso un piano (ma se ne parla dal 1971) e ha parlato di invasi artificiali sulle colline minacciate. Auguriamoci che non si progettino impianti faraonici destinati a restare sulla carta; basterebbero opere e attrezzature modeste per salvare il salvabile nelle aree di maggior pregio, le più insidiate. Ma il male non sarà eliminato finché la difesa del territorio e dell'ambiente resteranno temi di convegni e non entreranno nella coscienza di tutti. Mario Fazio

Persone citate: Mario Fazio, Ponente, Zamberletti