Era un popolo che viveva tra eroi e dei di Carlo Carena

Era un popolo che viveva tra eroi e dei Era un popolo che viveva tra eroi e dei IGreci vivevano fra le statue, come vivevano fra il divino e l'eroico. Esse rispondevano nel modo più completo al loro esasperato bisogno di realtà e insieme di idealità, di concretezza e di perfezione. Gli dèi erano personalità viventi, dentro e fuori la natura; gli eroi erano i grandi che avevano beneficato l'umanità, come Eracle, il furioso, il sofferente, il buono, e quegli altri che avevano dimostrato di possedere, per la perfezione e la forza fisica, o per le virtù morali della tenacia, del valore, una maggior vicinanza col divino: il guerriero, l'atleta; il caduto per la patria, il vincitore della gara. (Avverte Plinio che non si facevano ritratti di uomini se non quando meritavano davvero una gloria duratura). Il guerriero greco non era il furioso scita o l'astuto persiano. Era quale Alcibiade descive Socrate, suo compagno di tenda, nel Simposio di Platone: che, nella ritirata confusa di Delion, «volgeva dovunque la sua attenzione, su amici e nemici: uomo capace di difendersi con saldo vigo,re; col quale nessuno vorrebbe scontrarsi in guerra, preferendo piuttosto inseguire chi fugge a precipizio». O quali sono i marinai di Salamina in Eschilo, mentre avanzano cantando un chiaro peana fin dentro alle miriadi dì navi dei Medi esterefatti. O quale era Teseo quando affrontò il mare e il Minotauro secondo Bacchilide: «Intorno alle fulgide spalle una daga, e due levigati giavellotti nei palmi delle mani, un elmetto ben fatto sulla chioma e intorno agli omeri una camiciola di porpora, con sopra un mantello peloso: ma negli occhi il bagliore di una rossa fiamma». Cosi la statua presenta il guerriero ignudo, immoto, lo sguardo alto, fermo sui piedi, da cui traspare una forza tranquilla, una ferma determinazione. E l'atleta trasporta nella gara dell'intelligenza e del vigore le stesse virtù del guerriero nella gara della morte: il cocchiere, il giova- ne che si cinge la benda al capo o si unge d'olio, aspettano, nella presenza in loro di un vigore e di una virtù straordinari; sono appena più mossi nei prodotti di certe officine, come quella di Pitagora di Reggio, specialista in pose più tese o torte, il primo che avrebbe riprodotto sui corpi delle statue i tendini e con cura le capigliature. La statua era, così, la forma plastica di un uomo che viveva gran parte della sua giornata in piazza, che si aggirava ignudo nelle palestre, nei ginnasi e persino nelle battaglie (i Romani saranno più coperti, di tunica e toga, e più prudenti, con corazze). Entrando nei santuari, i Greci penetravano nella vita divina; aggirandosi fra le statue, si aggiravano fra i loro padri o tra forme sublimate della propria natura, non tra soggetti mitologici canoviani: «i Greci personificavano, noi raffiguriamo», scriveva Jean Paul. Nell'epoca in cui Roma appena usciva dalla barbarie, questa statuaria si diffondeva in tutto il Mediterraneo orientale, arrivava dall'Asia Minore alla Sicilia. A partire dal movimento di colonizzazione dell'VIII e VII secolo, sulle coste ioniche fiorivano Taranto, Locri, Crotone, Reggio. Di lì era già passato, secondo la leggenda, Ulisse; in Puglia era approdato Diomede, in Calabria era morto Filottete, il compagno fedele e sventurato di Eracle; gli Argonauti vi avevano fatto scalo al ritorno della loro navigazione strepitosa. Nel 443 Pericle aveva mandato Erodoto e Lisia a fondare Turi nella proverbiale opulenza della piana di Sibari. Ricchissime, colonia e madrepatria, di marmi d'ogni genere, i Greci usarono ben presto per la loro statuaria anche il bromo, dove la presenza di stagno, assieme allo zinco e al piombo, abbassava notevolmente la temperatura di fusione del rame e lo rendeva più solido. L'oggetto veniva prima eseguito in cera, o, se grande, in argilla rivestita di cera, con foro di uscita; poi vi si colava il bronzo, liquefacendo la cera; oppure, per lasciar vuoto l'interno nel caso dei pezzi più grossi, con un'anima di cera dentro l'involucro. A ravvivare coloristicamente e a rendere più realistico l'effetto, vi si aggiungevano partì d'oro o d'argento, si rendevano le superfici brillanti e s'incastonavano, in pasta di vetro, le labbra, gli occhi, le ciglia, elementi visibilissimi nei bronzi di Riace. I metalli erano di facile reperimento. Miniere di rame esistevano nell'Eubea e a Cipro, mentre lo stagno era ottenibile in Asia Minore o attinto dalla Spagna e dall'Inghilterra meridionale: in complesso una statua bronzea del IV secolo avanti Cristo non doveva costare più di tre volte quelle dei nostri monumenti. Ciò spiega la loro grande diffusione. Il dato del XXXIV libro di Plinio, secondo cui a Rodi esistevano 73.000 statue, è incredibile e si dovrà tranquillamente rettifirmre, anche se non forse in sole 3000 (i filologi, in mancan&a di altre emozioni, chiamano questi passaggi -luoghi disperati»); certo il generale ro¬ mano Marco Fulvio Nobiliore nel 189 avanti Cristo trasse dalla città di Ambracia espugnata 785 statue bronzee per ornare il proprio trionfo: primo di una lunga serie di saccheggi, che non risparmieranno neppure le tegole dei tetti e che arriveranno all'arte sublime di quel grande precursore che fu il governatore della Sicilia Gaio Vene. Fu solo la fame e sete di metalli alla fine dell'Impero — queste avide età di decadenza — che distrussero allegramente tutte quelle croste o quei capolavori. Dei grandi capolavori del V secolo non rimane che l'Apollo di Delfi, salvato sotto una frana, e ancora lassù, fra le rocce del Parnaso e gli ulivi di Itea, a guidare dentro il cilindro della sua tunica scannellata gli inesistenti cavalli; l'Apollo di Piombino, trovato in mare e ora al Louvre; e il Posidone del Museo nazionale di Atene, restituito egli pure dalle acque dell'Artemisio. Che davanti a queste opere si rimanga ancora ad ammirare e a riflettere, è un mistero di quel popolo, che ha saputo non solo scoprire ma anche fondere quanto c'è dipiù alto nell'umano. La formula winckelmanniana di «una nobile semplicità e una pacata grandezza» ci soddisfa an-< cora meno di quanto non facesse per Hofmannsthal, a cui era quello stretto affratellamento, nella statuaria greca, di bellezza e di forza a riuscire emozionante. Forse converrà semplicemente ritornare ad un episodio narrato da Goethe: che a Paestum vide un visitatore avvicinarsi per una seconda volta ad una statua — era una copia dell'ILioneo — osservarla attentamente e cominciare poi a muovere le dita e le mani «come se parlasse con qualcuno» : non per un effetto di naturalismo, ma anzi di qualcosa di vivo che era ancora li, dopo duemila anni, in quel metallo. «Sono lontani, ma, mio Dio. come sono reali!», esclamava Hofmannsthal. Carlo Carena

Persone citate: Goethe, Greci, Jean Paul, Marco Fulvio, Pitagora, Platone, Salamina, Socrate