Quanto sei brutta Roma calpestata da orde di lanzichenecchi

Quanto sei brutta Roma calpestata da orde di lanzichenecchi Il saccheggio della capitale nel 1527 Quanto sei brutta Roma calpestata da orde di lanzichenecchi QUANDO Ferdinando Gregorovius cominciò a scrivere la sua Storia della città di Roma nel Medioevo, sembrò poi non voler concluderla mai, non saper decidersi a trovare una data e porre fine al lavoro. Arrivato anche alle pagine, memorabili su Cola di Rienzo, tirò diritto, per non placarsi finalmente che duecento anni dopo, col Sacco di Roma. Quell'evento gli sembrò davvero porre termine a ogni indugio, segnare una tappa decisiva. Un papa, e un Medici, rinchiuso in Castel Sant'Angelo e svillaneggiato allegramente, era ancor peggio della sberla di Anagni. E poi, quando più si sarebbe incontrato sul cammino della storia un possibile quadro di quelle tinte? E' quel che deve aver pensato anche Giovanna Solari, autrice di un II Sacco di Roma apparso in questi giorni da Mondadori Già sperimentata coi precedenti Storie di Casa Farnese e 22 storie dei duchi di Urbino, stimolata da un genere fantastico - cronachistico che da qualche tempo tira fra i lettori, ormai innamorati del Medioevo come dieci anni fa della fantascienza, la Solari li soddisfa molto degnamente, con un libro intelligente e fine sopra un episodio tu «'all'opposto rozzo e brutale. Non rifa la storia del sacco romano del 1527 prendendolo alla larga, mene dinastiche e vicende esteriori Non per nulla nella sua bibliografia non figurano gli storici moderni fino al recentissimo André Chastel, bensì i grandi descrittori ottocenteschi col Gregorovius in testa, e gli editori di diari, di epistolari, di biografie, un'inedita Relazione delle miserie dopo il Sacco di Roma e un Contributo alla storia del malfrancese in Italia del grande Renier sull'impassibile «Giornale storico della letteratura italiana» (volume quinto, anno 1885). Cosa ne ricava? Un affresco mobile a pannelli collegati da un filo conduttore, in cui un personaggio viene spesso rinviato dall'uno all'altro e in cui più o meno, a pieno tordo o di scorcio, entrano tutti i protagonisti massimi e minimi di quell'evento. Se al centro campeggiano il papa o il cardinale Colonna, il re di Francia o il duca d'Urbino, c'è chi occhieggia di lato, a mezzo busto, come nelle pale votive o nelle istantanee di famiglia, ovvero passa a caso, furtivo, sullo sfondo, come Benvenuto Cellini e Francesco Ber ni. Ne esce il ritratto di una città e la cronaca di un fatto mescolati insieme con la potenza della realtà e l'animazione della fantasia. Quando, nel corso delle dispute fra Carlo V e Francesco I, durante il mese di ottobre del 1526 i dodicimila lanzichenecchi luterani arruolati dal nobile tirolese Georg von Frundsberg scendono in Italia a sostegno del primo, Roma è appena uscita dagli anni d'oro di Leone X e spiega davanti agli occhi più tristi di suo cugino Clemente VII lo spettacolo di una città unica, popolata quasi solo di ecclesiastici, di ambasciatori di tavernieri e di cortigiane. Da queste ultime prende le mosse la Solari con l'ascesa della dinastia di Menicuccia Pocopanno. Ad essa via via aggiunge nei capitoli successivi un grazioso e accorto tedesco, Germanino detto l'Arcangelo, che mescola i rami di quella genealogia, la disperazione e i patimenti dei cardinali l'assedio pittoresco in Castel Sant'Angelo, la lettera accorata di un umanista, il diario di un invasore onesto, l'uscita e il ritorno del papa, fra quelle due date del maggio '27 e del febbraio '28 in cui Roma è sottoposta al saccheggio e alla peste. Sotto alle chiavi degli episodi, si snocciolano, con l'invenzione della scrittrice o il dato documentario, le minutaglie innumeri che danno la misura e il tono di quei giorni: un lanzichenecco seduto a digerire rumorosamente sulla cattedra di Pietro, i manoscritti di Santa Sabina usati come strame per i cavalli, gli infermi dell'ospedale fatti roteare e scaraventati nel Tevere, i ricchi tenuti sul fuoco a sgocciolare il grasso dei piedi i vescovi sventrati. Una fame da flagello biblico, un terrore da Apocalisse, in cui s'insinua, nell'interpretazione o almeno nella prosa della Solari, quell'attenuazione fisiologica che è nel carattere dei Romani, nella storia della città «la più piena di dolori e di gloria», come dice Gregorovius, e in genere nella legge della sopravvivenza di ogni specie animale. Vedere, da parte del popolino, quei porporati dai cortei fastosi e dalle mense pantagrueliche ora scorciati del naso o mendicanti in mutandine faceva certo uno spettacolo che poteva anche compensare dell'incendio dei propri tuguri; sentire il racconto della morte del connestabile di Borbone durante la scalata delle mura, troncato da un colpo d'archibugio dello «scettro della sua virilità», ne ingigantiva la statura anziché l'esecrazione. E gli asini parati da monsignore o i registri dei banchi che fioccavano in aria come neve, potevano consolare della scomparsa se non dello scempio della propria figliola. Questo, almeno, l'effetto delle pagine della Solari, dove il tono tragico — mai drammatico — si alterna al comico, l'ironia sfreccia accanto ai lamenti tra gustosi arcaismi di vocabolario, la Storia si sbriciola per i mille rivoli della nostra personale esistenza, per tutto ricomporsi alla fine: quando la peste devasta anche le bande stremate dei lanzi c mentre essi fuggono disperati verso Napoli rientra il papa sotto una pioggia torrenziale, felicitato dallo stesso imperatore e salutato come sempre dai suoi sudditi Carlo Carena Giovanna Solari, Il Sacco di Roma Mondadori, 275 pagine con 16 illustrazioni, 12.000 lire. wm Il Sacco di Roma (incisione da un disegno di van Heemskerck)