Monelli e il piacere di viaggiare in prosa di Francesco RossoPaolo Monelli

Monelli e il piacere di viaggiare in prosa I NOVANTANNI DEL GIORNALISTA PRINCIPE Monelli e il piacere di viaggiare in prosa Mercoledì scorso, 15 luglio, Paolo Monelli ha compiuto novant'anni. Sostiamo un momento dinanzi a questa barricata di tempo, oltre la quale, mi par di sentirlo, direbbe che c'è la barbarie. Uno dei suoi libri sull'uso della lingua è proprio «Barbaro dominio». Purista quasi alla Basilio Puoti, egli sentiva involgarirsi la lingua italiana, non per l'uso di neologismi d'origine foresta che anch'egli adottava con parsimonia, appropriatamente, ma per la trasandatezza lessicale e sintattica ormai dilagante; gli guastava il piacere che provava scrivendo quella sua prosa tersa, cristallina, concisa, derivatagli dalle ben assimilate lingue classiche. Paolo Monelli ha festeggiato il suo novantesimo compleanno, un bel traguardo se si conta il tempo trascorso, ma anche cumulo di amarezza nel constatare quanto tutto sia mutato, e non sempre in meglio. Lo penso nella sua casa romana di via XX Settembre, colma di libri, monocolo incastrato nell'orbita. «Che cos'è accaduto?». Caro Paolo Monelli, è accaduto tutto e niente; il mondo ha lasciato le strade maestre, ha imboccato i vicoli e si trova allo stretto, intasato, col fiato greve, e tanta insofferenza l'uno per l'altro. Lui, maestro di saper vivere, s'è ritirato in silenzioso disdegno, fra i libri che tanto ama, chiuso nel suo eremo dopo aver avuto per orizzonte il mondo. E' stato uno dei più noti giornalisti italiani, se non il più noto, durante mezzo secolo. Era l'epoca dei giornalisti-scrittori; Monelli, Emanuelli, Montanelli, Tommaselli (accidenti, quanti elli), eppoi Barzini, Malaparte, Quadrone, David, talora Piovene, Doglio, Lilli, Appiotti. Giravano il mondo, telegrafavano corrispondenze dalla Cina, dal fronte finlandese, dal Polo Nord alla ricerca di Nobile, dal fronte del Chaco. Ghiacci polari e sole equatoriale si alternavano nei loro equipaggiamenti, nelle loro corrispondenze, nel loro temperamento. Paolo Monelli era il giornalista principe, in assoluto, per la prosa controllata e nitida, ma anche per lo scrupolo del cronista fedele al dettaglio in apparenza insignificante e nel trasformismo dell'uomo che sa adattarsi ad ogni clima e condizione. Nel 1930 uscì un suo volume «Questo mestieraccio», come detestasse il lavoro di giornalista. Invece, lo amava quasi carnalmente, ne era conquistato fin nell'intimo. Ricordo in occasione di «Italia '61», la grande parade regionale a Torino. Giulio De Benedetti aveva mobilitato un manipolo di giornalisti di nome, fra i quali Monelli, Piovene ed altri, me compreso. Poi ci invitò a colazione nella sua casa di corso Lanza, e fu una singolare colazione Maria De Benedetti, perfetta padrona di casa, esibiva la sua alta cucina, i suoi vini. Paolo Monelli, autore di «Il vero bevitore» (sottotilo Optimus potar), discuteva sulle bottiglie, sulle annate dei vini, sulle qualità che aveva degustato nei suoi giri attraverso meridiani e paralleli, Giulio De Benedetti, con quella voce rauca di chi ha fumato durante una vita, ci punzecchiava. «Ma non vi stanca, non vi annoia esser sempre in giro da un albergo di Copenaghen ad un altro di Rio de Janeiro?». Incastrando saldamente il monocolo, Monelli gli rispose: «No; quando arrivo mi faccio il nido. Mi riesce poi difficile ripartire». Gli era difficile perché, ovunque andasse, egli era immediatamente di casa. Aveva visitato tutte le capitali del mondo, conosceva tutti. Tornava dalla trincea nel Chaco, e la sera, in f rack, o in smockirìg bianco, era a pranzo all'ambasciata di Rio de Janeiro. Ma prima aveva scritto e telefonato il servizio. Nel 1958 andò in Algeria al seguito di De Gaulle che compiva il suo ultimo viaggio di monarca fra le tribù dell'Aures, del Sahara, della Cabilia. Qgni sera, Paolo Monelli rientrava ad Algeri dalla tappa di De Gaulle, si metteva alla macchina da scrivere nella sua camera all'Hotel Aletti e non si arrestava un attimo, finché non aveva terminato il servizio. Sempre rapidissimo, tanto era padrone della lingua, talora s'impennava. Ricordo una sera mentre stavo a guardarlo ammirato; ad un certo momento troncò di battere sui tasti e mi disse: «Come si può definire la faccia di un vecchio arabo con la barba incolta?». Non si attendeva una risposta da me, evidentemente, perché andò a consultare un dizionario (ne portava sempre con sé due italiani, uno francese, uno inglese, uno spagnolo) e trovò il termine che voleva, in spagnolo. «Un vecchio arabo di Aar&jcrecida...»cioèdi barba cresciuta, ispida, incolta. Nel gennaio 1964, papa Paolo VI volò in Terra Santa. Fu un avvenimento, ed accorsero i bei nomi sonanti: Buzza ti, Montale, Monelli, Gorresio, Camilla Cederna. C'ero anch'io, andato a fare da battistrada. Presentai Monelli al dottor Fausto Tesio, medico famoso in Giordania ed in tutta l'Arabia, che conoscevo da tempo. A Gerusalemme, il dott. Tesio attendeva il papa alla Porta di Damasco, coi cavalieri del Santo Sepolcro: situazione utilissima a Monelli perché, riparato da quel colosso, in bianco mantello, egli potè assistere al furente assalto degli arabi deliranti d'entusiasmo per il Papa cattolico, sul volto del quale Monelli lesse l'angoscia di chi stava per esser schiacciato dal fanatismo. Scrisse una cronaca da manuale, a caldo, solo tenendo ferme le immagini di volti, corpi avviluppati, occhi stralunati, servendosi di quella lingua che gli era docile strumento. Si trattenne ancora in Giordania dopo la partenza del Pontefice e inviò corrispondenze mirabili da Amman, da Petra, e soprattutto dal Kerack, il castello-fortezza dei Cavalieri, dove fu ospite di un altro medico italiano, il dott. Giorgio Rivara, e della sua squisita consorte Milly. Non mi dilungo a parlare di «Scarpe al sole», il suo libro più celebre, di «Mussolini piccolo borghese», di «Alta Spoleto», e del suo diario di inviato speciale «In giro per il mondo». Lo ricordo, nei servizi che facemmo insieme, scrittore superbo e cronista umilissimo, che voleva sapere con esattezza quanti metri c'erano dalla Porta di Damasco alla Basilica del Santo Sepolcro e quanti anni aveva fra Patacconi, il francescano che custodiva la casa di Lazzaro, e quanti il samaritano che ancora celebrava il rito nella sinagoga di Samaria, e come si facevano i vetri soffiati di Hebron. Finito il lavoro, indossava abiti curiali, frack o smocking, e partecipava ai parties mondani in cui, capelli geminati, monocolo ben saldo nell'orbita appariva come l'esponente più Elustre dell'aristocrazia giornalistica italiana. Gli dobbiamo molto, in molti. Perciò, tanti auguri di buon compleanno Paolo Monelli, giornalista principe e maestro di saper vivere. Francesco Rosso Paolo Monelli