Lotte e disfatta del nazionalismo

Lotte e disfatta del nazionalismo ANNI 20: LO STATO AUTORITARIO Lotte e disfatta del nazionalismo Negli ultimi decenni dell'Ottocento e con crescente vigore agli inizi del Novecento, una parte degli intellettuali europei prese a disfare la tela che liberalismo e socialismo avevano tessuto nel secolo precedente. Libertà, eguaglianza e democrazia vennero sempre più derise come miti senza costrutto; e fu colpita al cuore la fiducia che l'umanità potesse conoscere un progresso indefinito per vie graduali ed evolutive. E la rivolta degli intellettuali contro l'ottimismo gradualistico e riformistico, si presentasse questo in forme borghesi oppure socialistiche, ebbe varianti di destra e di sinistra, che non a caso giunsero ih certi punti a intrecciarsi. Contro il progresso come fatto «oggettivo», prodotto dell'evoluzione, si levarono l'attivismo e il soggettivismo individuali e collettivi. Una delle varianti di questa rivolta contro liberalismo borghese e socialismo operaio fu rappresentata in Italia dal nuovo nazionalismo; che trovò in Enrico Corradini e nella sua rivista II Regno, fondata nel 1903, la sua prima organica espressione intellettuale, e nel 1910 giunse a organizzarsi in Associazione nazionalista italiana. Maturato nel clima dell'imperialismo mondiale, dell'affermarsi del capitalismo dei trusts e dei cartelli, della ritardata modernizzazione economica italiana, il nazionalismo si pose il compito di assicurare all'Italia un ruolo dinamico che lo Stato liberale non era stato capace di darle. E a quelle del liberalismo e della democrazia (da cui dopo iniziali incertezze divorziò nettamente), il nazionalismo oppose la sua «legge» suprema. All'interno deve prepararsi spegnendo la lotta di classe, costruendo una solidarietà di fondo fra le classi nel rispetto dei naturali princìpi di diseguaglianza fra gli uomini e delle conseguenti gerarchie; potenziando adeguatamente l'industria moderna che è la base della potenza della nazione e dello Stato; ponendo tutte le parti sociali, riorganizzate secondo i princìpi di un collettivismo organico, sotto la tutela dello Stato. All'esterno, deve prepararsi a intervenire nei contrasti internazionali perseguendo lo scopo dell'utile del lo Stato nazionale e della sua espansione e potenziando la forza delle armi. La guerra misura della vita dei popoli; e l'Italia deve lottare per diventare da povera, «proletaria» ricca e potente. Queste idee, agitate sulla scena italiana per circa un ventennio dagli intellettuali nazionalisti, nel corso della contemporanea crisi di liberalismo e socialismo maturata nel primo dopoguerra, diventarono parte decisiva del patrimonio ideologico del fascismo al potere. Il rapporto fra nazionalismo e fascismo si presenta quindi come essenziale. Rapporto non significa d'altra parte indistinta «continuità» fra il primo e il secondo, bensì senso delle necessarie distinzioni, senza le quali non si riesce a comprendere le specificità dell'uno e dell'altro. Si pensi solo che il primo non divenne movimento di massa e il secondo sì; che il primo sottolineò il ruolo delle élites e il secondo unì masse e capo; che il primo si assestò su una coerente visione di nuova Destra laddove il secondo ondeggiò fra spinte contraddittorie. ★ * Appunto dedicato da un lato allo studio organico del nazionalismo e dall'altro ai suoi legami con il fascismo è il volume di Franco Gaeta II nazionalismo italiano, che, uscito nel 1965, ora Laterza ripubblica con integrazioni e aggiornamenti. Quest'opera era e rimane la più completa sull'argomento. Gaeta sottolinea come, proprio per poter capire in qual modo il nazionalismo sia giunto a «elaborare una dottrina dello Stato e una teoria politica che finirono per essere la dottrina del fascismo in funzione riempitiva di una pressoché assoluta carenza ideologica di Mussolini e dei suoi amici», occorra preliminarmente opporsi a un appiattimento del nazionalismo nel fascismo, secondo un concetto semplicistico di «nazionalfascismo». Questa, seppure relativa, autonomizzazione di nazionalismo e fascismo, serve insomma per poter intendere su quali basi avvenne l'amalgama fra i due nel quadro sì della supremazia teorica nazionalista, ma anche della leadership mussoliniana. Non si può non registrare che il nazionalismo italiano rimase anzitutto un movimento fondato sull'iniziativa di intellettuali: Corradini, Sighele, Federzoni, Davanzati, Maraviglia, Coppola, Rocco, ecc.; di intellettuali, però, che riuscirono a incidere sulla politica concreta, collegandosi al momento opportuno con precisi interessi (il legame con la grande industria), inserendosi con forza in fasi decisive della storia nazionale quali la guerra libica, il periodo della neutralità, per arrivare nel dopoguerra (e qui è il nodo cruciale) a lottare con decisione allo scopo di depurare il fascismo dalle sue contraddizioni e ambiguità così da «catturarlo» alle proprie finalità organiche. Ad un certo punto i nazionalisti dissero chiaro a Mussolini che non poteva illudersi di avere altro avvenire che a destra. Tendenza dunque prevalentemente intellettuale, ma con una visione concreta del mondo degli interessi materiali — e il suo iter ideologico può essere seguito attraverso l'antologia appena pubblicata da Feltrinelli I nazionalisti, a cura di Angelo D'Orsi —, E nazionalismo arrivò al suo pieno successo nel momento in cui diventò, superando tensioni e contrasti col fascismo, la salda gabbia teorica di quest'ultimo, dando un contributo decisivo alla costruzione dello Stato prima autoritario e poi totalitario. Se Corradini fu il Giovanni Battista del nazionalismo concepito ancora in chiave di retorica ideologico-letteraria (lui parlò doli'Italia proletaria), fu Alfredo Rocco l'estensore del Vangelo teorico del movimento con un linguaggio rigorosamente politico-giuridico. Fu Rocco che fin dal congresso nazionalista del 1914 pose sotto accusa, meglio di tutti gli altri, l'individualismo liberale e l'egoismo classista dei socialisti, contrapponendovi le collettività organiche, il principio delle gerarchie corporative, il culto dello Stato, il piano di un cattolicesimo posto al servizio dello Stato, il concetto del plebiscitarismo autoritario, l'esigenza di uno sviluppo economico su basi protezionistiche. Gaeta fa emergere bene — venendo al 1921-'22— come in quegli anni il nazionalismo abbia trionfato sulle ambiguità e oscillazioni opportunistiche del fascismo fra destra e sinistra, fra tendenzialità repubblicane e filomonarchiche, in quanto fece pesare la propria autonomia teorica come unico avvenire politico anche del fascismo. Ma mi pare che rimanga un po' appannata nella sua ricerca l'analisi delle radici per un verso della forza e per l'altro della debolezza delle ideologie del moderno nazionalismo italiano. Le ragioni del successo vanno a mio avviso ricercate essenzialmente in due direzioni: 1) la consapevolezza che il capitalismo internazionale e italiano erano lungi dall'essere in crisi storica come ritenevano i socialisti; 2) la consapevolezza che i contrasti economici e sociali potevano essere in Italia decisamente utilizzati contro lo sviluppo della democrazia. Ma il nazionalismo portava in sé fin dalle origini il proprio cancro roditore, sicché la sua vittoria doveva prepararne la disfatta. I nazionalisti, come i fascisti, ritennero che le loro formule imperialistiche e autoritarie fossero l'avvenire di tutto il capitalismo; e quando indicarono nell'imperialismo espansionistico la via del futuro italiano dimostrarono una totale incapacità di comprendere che questa via, una volta percorsa, non poteva che portare alla rovina uno Stato organicamente debole e del tutto inadeguato a giocare sulla scena della storia universale la parte che essi avevano destinato all'Italia. Massimo L. Salvadori

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