Telefoni bianchi, camicie nere

Telefoni bianchi, camicie nere RIVEDENDO IN TV IL CINEMA DELL'EPOCA FASCISTA Telefoni bianchi, camicie nere C'è un'opinione tuttora diffusa in larghi strati di pubblico, nonostante i numerosi libri e saggi che sono stati scritti sull'argomento in questi ultimi anni, che il cinema italiano degli anni del fascismo — così come la letteratura, l'arte, la cultura — fosse profondamente impregnato di spirito fascista, riflettesse in varia misura l'ideologia del regime secondo le regole allora imperanti della propaganda. E si citano ai riguardo, come esempi significativi di questo cinema, i soliti film, da Vecchia , guardia di Blasetti a Camicia nera di Forzano, da Scipione l'Africano di Gallone a Luciano Serra, pilota di Alessandrini, sino ai film bellici dello stesso Alessandrini, di Genina, di Rossellini e di altri, più direttamente sorretti da intenti propagandistici. Senza forse rendersi conto che queste opere, variamente accolte dal pubblico e dalla critica d'allora — e a volte addirittura osteggiate dal regime —, rappresentavano una percentuale minima, quasi trascurabile, dell'intera produzione cinematografica italiana. Ora che anche il pubblico televisivo ha potuto vedere o rivedere, nella bella rassegna curata da Orio Caldiron da poco conclusa, un cospicuo numero di quei film, realizzati in Italia nel corso degli Anni Trenta, il discorso sul cinema fascista, sui suoi caratteri e sui suoi limiti, può uscire dallo stretto ambito degli specialisti e porsi come elemento per una discussione generale, di carattere storico e sociologico, sulla cultura del fascismo. La quale «cultura», proprio perché doveva contribuire, in certo senso, ad appiattire i caratteri originali delle culture locali e a omologarli nel concetto di «italianità», buono a ogni uso rettoria» e nazionalistico, era giusto che affondasse le proprie radici in quella mentalità piccolo-borghese che, al di fuori di ogni analisi di classe, consentiva il mantenimento del potere centrale rifugiandosi nei piccoli orti privati o nel disimpegno ideologico e politico. Da qui il cinema e la letteratura d'evasione, il rifugio nel sogno o nella quotidianità edulcorata, solo qua e là contraddetto da qualche opera «impegnata», propagandistica, fatta, si direbbe, per epater le bourgeois piuttosto che per esaltare le glorie del regime. Non c'è da stupirsi allora che Gennaro Righelli, ispirandosi a una novella di Pirandello, realizzi nel 1930 il sentimentalissimo e lagrimevole La canzone dell'amore (che anticipa di vent'anni i melodrammi popolari di Matarazzo); e che nove anni dopo, alle soglie della seconda guerra mondiale, Max Neufeld giri la corninediola ungherese Mille lire al mese: due film esemplari di quel cinema del disimpegno che doveva costituire, come di fatto costituì, l'asse portante della produzione fascista. £ non molto diverse sono le storie e i personaggi che ritroviamo nella Segretaria privata di Alessandrini o nella Telefonista di Malasomma, in T'amerò sempre di Camerini o in Seconda B di Alessandrini e così via. Piccoli amori e grandi sentimenti, ambienti dimessi e sogni a occhi aperti: il quotidiano svuotato d'ogni conflitto che non sia riconducibile alla dimensione dell'operetta o del romanzo d'appendice. Si dirà: ma questo era in larga misura il cinema degli Anni Trenta che si faceva a Hollywood o in Francia, e persino nella Germania di Hitler, come la recente rassegna di Rapallo dedicata all'«Europa dei telefoni bianchi» ha voluto dimostrare. E' vero. Ma è altrettanto vero che questi film evasivi e pnpdtbtatmgoscvzezosfuldluccstamslmds piccolo-borghesi vanno inseriti nel più vasto contesto della produzione cinematografica d'ogni singolo Paese e confrontati con gli altri aspetti e problemi delle varie società e culture. In questa prospettiva più ampia il cinema italiano, quantitativamente e qualitativamente in gran parte «disimpegnato», si colloca su un piano oltremodo significativo: come scelta precisa d'una politica culturale che il fascismo andava sviluppando in varie direzioni, sia pure con incertezze, errori e non poca improvvisazione. Per tacere d'una certa opposizione sollevata dagli stessi produttori cinematografici. A rileggere con attenzione un libro molto citato ma poco letto uscito nel 1949, Il cinema di Luigi Freddi, che fu dal 1934 al 1939 Direttore generale della cinematografia, si ha un quadro estremamente preciso e documentato di quello che il cinema fascista voleva essere e fu. Si trattava, da un lato, di ricostruire un'industria alquanto vacillante e tecnicamente superata; dall'altro, di sviluppare un'idea di spettacolo popolare che aveva come modello il cinema hollywoodiano. Raccontare storie suscitando sentimenti e passioni presso un pubblico di massa, senza sollevare problemi sociali o riaprire vecchie polemiche ideologiche, preoccupandosi in primo luogo di allontanare la gente dalle vere questioni del tempo, senza tuttavia fuggire dalla realtà d'ogni giorno, anzi immergendovisi con l'avvertenza di ricomporre sempre armoniosamente i contrasti e di darne una rappresentazione edulcorata e moralistica. Da questo punto di vista, i film che abbiamo citato e molti altri di quegli anni rientrano perfettamente nella politica culturale di Mussolini. Ed è giusto che, non soltanto nei prodotti d'evasione, ma anche in quelli di «regime», come Luciano Serra, pilota, supervisionato dal figlio del dittatore, il sentimento prevalga sull'eroismo magniloquente, le vicende personali sopravanzino la rettorica fascista. Perché è attraverso il privato — la famiglia, l'amore, il sacrificio, l'onore — che quella rettorica riusciva a passare, commuovendo il pubblico, magari esaltandolo, facendolo partecipe d'una rappresentazione della vita credibile e accettabile. Che era, come si è detto, una' rappresentazione a ben guardare piccolo-borghese, nel senso che risolveva ogni conflitto nel chiuso dell'esperienza personale e privata, fuori d'ogni analisi storica, politica, sociale. Cinema fascista, allora, quello italiano degli Anni Trenta ricco di personaggi mediocri, provinciali, dimessi e anticroici? Per buona parte sì, proprio nella direzione contenutistica e formale indicata. O meglio, a voler essere precisi, cinema fascisticamente complementare alla politica del regime, alla sua rettorica propagandistica. Perché non va dimenticato che, insieme ai film evasivi di Alessandrini, di Camerini, di Malasomma, di Mattoli, di Righelli e di molti altri, passavano sugli schermi i Cinegiornali Luce, questi sì d'informazione e di propaganda e spesso supervisionati, come ricordava Freddi, dallo stesso Mussolini. Film e cinegiornale si integravano a vicenda per dare al pubblico quell'immagine dell'Italia, fra quotidianità e magniloquenza, che doveva al tempo stesso tranquillizzare ed esaltare: un'Italia autenticamente fascista. Gianni Rondolino Elsa Merlini in «La segretaria privata» di Alessandrini

Luoghi citati: Europa, Francia, Germania, Hollywood, Italia, Rapallo