Il mito della grande Albania di Frane Barbieri

Il mito della grande Albania IL NOSTRO INVIATO NEL KOSOVO, PER SPIEGARE LA RIVOLTA Il mito della grande Albania Gli studenti si sonò visti d'improvviso svanire prospettive e speranze, perché i posti di lavoro erano insufficienti - La frustrazione per non poter tenere il passo con il resto della Jugoslavia, anche a causa della barriera linguistica, ha creato lo spazio per visioni ugualitaristiche - Uno dei massimi dirigenti del partito: «Per mancanza di senso critico, il tradizionalismo romantico ha preso il sopravvento. Tirana ha giocato su questo tasto e noi non l'abbiamo ostacolata» " DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE PRISTINA — Oli esotici tetti ricoperti di rame dei moderni palassi di Pristina sono sovrastati solo dagli antichi minareti delle moschee. Viene da pensare in un primo momento che quell'immagine nasconda la chiave interpretativa del moti violenti che improvvisamente avevano scossò la regione e con essa tutta la Jugoslavia. Non riuscendo a credere che gli albanesi del Kosovo possano preferire il Paese di Enver Hoxha a quello di Tito, data la differenza dello sviluppo e delle libertà raggiunte, si è orientati a cercare in quella specie di rivolta un'eco delle rivoluzioni islamiche. La ricerca in quella diregione è però subito scoraggiata. La smentita non poteva essere più autorevole. Alla •Moschea Imperlale' il presidente della comunità islamica del Kosovo, Haxhi Ismail, afferma: «Nel disordini non c'è traccia di rivoluzione Islamica. I dimostranti rivendicavano cose che non si confanno affatto a credenti musulmani: chiedevano l'Albania dove la religione è vietata e le moschee chiuse». Nei giorni di massima tensione anni le moschee qui erano piene: si pregava per scongiurare il peggio. Anche i giovani pregavano? Haxhi Ismail risponde con un tocco di amarezza: «I giovani purtroppo si sono allontanati dalla religione. Ora scopriamo che nemmeno gli altri riescono acontrollarli». Alla sede della lega dei comunisti incontro infatti i massimi dirigenti della regione alla ricerca dei motivi per i quali l'influenza del partito è stata sopraffatta dagli avvenimenti. Riconoscono con. franchezza di essere stati presi alla sprovvista dalla violenza dei moti. Anzitutto dal loro carattere insieme irredentistico e stalinista. Non riescono a capacitarsi di come «il nazionalismo possa essere tanto cieco da non vedere i vantaggi del regime jugoslavo e preferisca quello albanese». Tutte le statistiche parlano a favore della Jugoslavia. Il reddito prò capite degli albanesi di Kosovo supera gli 800 dollari mentre in Albania non raggiunge ancora 1600. A Pristina gli studenti universitari sono 56 mila contro t20 mila di Tirana. L'industria della regione è cresciuta di 18 volte, l'urbanizzazione di 5. Qui nelle città c'è un'automobile ogni famiglia, nei viilaggi'ce n'è una ogni ire, in Albania non c'è nemmeno una bicicletta. I rappresen tanti di Tirana Quando vengono a Pristina non credono tuttora che possa trattarsi di automobili private e obiettano che «lo Stato jugoslavo di- spone di troppe macchine». Quando, interrogando gli au-' tomobilisti, sono stati convinti che erano private, hanno replicato: «Allora è la prova che vi state avviando versò il capitalismo». Mi dice Azem Vlasi, presidente dell'Alleanza socialista di Kosovo (per vari anni è stato presidente della Gioventù, jugoslava): «Una piccolissima parte accetta le posizioni di Tirana e sarebbe disposta a vivere in Albania. Conoscono le condizioni di quel Paese e la durezza del regime. Quando si recavano di la, già alla frontiera la polizia sequestrava tutto quanto si portavano appresso, anche i regali per i parenti. Temevano l'inquinamento. Eppure, i nazionalisti, anche se. minoritari, sono riusciti a inquinare la situazione dalla nostra parte». Frustrazioni 9 Ovviamente, nel cercare le origini del malcontento l dati vanno letti in un'altra chiave. Se il paragone con il reddito albanese può essere soddisfacente non deve essere affatto incoraggiante il paragone con la media jugoslava < che va oltre i 2500 dollari e tanto meno con le repubbliche più progredite che si avvicinano al 5 mila. Uno degli slogans portati alle dimostrazioni era tipico delle rivolte dei sottosviluppati: «Le nostre miniere lavorano e la Serbia guadagna». Era troppo complicato spiegare che il novanta per cento dei capitali per far funzionare le miniere di piombo, di nickel, di zinco e di carbone erano investiti dalle casse federali e che il Kosovo viene tuttora sovvenzionato per il 60 per cento dei suol bisogni. E' proprio II convulso sviluppo jugoslavo che nella zona arretrata ha acuito i contrasti e aumentato le frustrazioni. Il passaggio dalle campagne nella città, senza limitazióni né controlli, veniva inteso come passaggio dalla miseria al benessere. Poi si è scoperto che il benessere non era garantito per tutti. Gli studenti accorsi all'università sino a diventare l'esatta metà della popolazione di Pristina speravano di cambiare di colpo la propria posizione sociale. Senonché i nuovi posti di lavoro non erano sufficienti. I disoccupati, in buona parte con laurea o qualifica, sono saliti a 100 mila. A tutto si aggiunge una crescita demografica sette volte superiore a quella jugoslava cosicché nel settore socialista del Kosovo si registra un impiegato su undici cittadini mentre nelle zone sviluppate sono uno su quattro. I laureandi si sono visti, d'improvviso svanire le prospettive e le speranze: non certi di trovare un'occupazione, non sono però disposti a ritornare net villaggi. La colpa l'hanno addossata al sistema, al fatto che l'autogestione comporta la selezione economica di mercato e che questa a sua volta comporta la selezione fra gli uomini. Qui si è creato lo spazio per i miti ugualitarisUd, per il sistema di garanzia del pieno impiego, non importa se in base alla giusta ripartizione della miseria. Frustrati per non poter tenere il passo dei resto della Jugoslàvia, di non poter raggiungere le zone sviluppate, anche a causa della barriera linguistica, si sono rifu-' giati nel mito della grande Albania. E' su questo problema intemo che si innesta quella che oggi viene scoperta come «infiltrazione irredentistica e indottrinamento enverl-, sta». Trova il terreno propizio proprio fra gli studenti. L'università di Pristina è stata 'formata quindici anni fa nel segno di un risorgimento nazionale e culturale dopo anni dì •protettorato» serbo. Dal venti per cento gli studenti albanesi sono saliti oggi a oltre l'ottanta percento. Si insegna in lingua albanese, mentre li serbo-croato non è obbligatorio (paradossalmente nemmeno,nelle elementari e nelle medie: sin dagli asili gii albanesi e i serbi vengono separati). Per molti aspetti anche l'Insegnamento è stato risorgimentale?si scopriva per;la prima volta la storia, la letteratura, là stessa identità nazionale. A quel livelli era anche inevitabile che sorgesse un posticcio romanticismo nazionale: la leggenda del popolo più antico dei Balcani e di Skanderbeg, il più grande del condottieri. L'istituto albanologico supera di gran lunga quello di Tirana. Ecco la diagnosi di uno del massimi dirigenti del partito, veterano della rivoluzione del Kosovo, Alt Shukrija, albanese come tutti gllaliri capi della regione: «Da dove è venuto l'indottrinamento? I professori Non abbiamo seguito con adeguata attenzione i processi del risorgimento, facilitato pur sempre dal sistema jugoslavo. Non si può negare a nessun popolo di vivere con la propria storia e la propria etnologia. Però ciò non significa lasciar accumulare il nazionalismo. Per mancanza di senso critico il tradizionalismo romantico ha preso 11 so- prav vento. Tirana ha giocato ' sul tasto romantico e noi non l'abbiamo ostacolata. Cosi 11 risorgimento si sviluppava nelle sfere storiche, non tenendo conto dello sviluppo tecnico, produttivo e sociale, che devono essere alla base del risorgimento se lo vogliano moderno e socialista**;»«<mj Mi partano dappertutto'di infiltrazione e di indottrinar mento. Ma come, in quali forme'è avvenuto? E' stata scoperta nel Kosovo la rete clandestina del ^partito marxista-leninista albanese* filiazione di quello di Tirana. Era organizzato in trojke, gruppi di tre, per coprirlo meglio di cospirazione. Alcuni sono stati arrestati. A Decani è stato scoperto anche un co-, mitato cittadino di cinque membri. I contatti con Tirana passavano in primo luogo tramite il 'Fronte rosso; l'organizzazione degli emigranti albanesi In Europa, legata alle rappresentanze diplomatiche. Per quel canale arrivavano anche l volantini diffusi nel Kosovo. Tuttavia più che dalla rete clandestina, limitata nelle sue proporzioni, l'irredentismo è staio diffuso dai famosi professori albanesi. Dico •famosi» perché non si fa che parlare di loro. Da Tirana sono venuti qui in un'ottantina. Circolavano liberamente e tenevano lezioni senza filtri ideologici. Mi racconta il professor Popovct, segretario dell'Accademia delle scienze del Kosovo:. «Sapevamo che lo scambio scientifico e culturale era uh confronto fra due sistemi. Noi ci siamo scoperti più onesti o più ingenui e sprovvedati, Contavamo sulMnterazione,',sicuri di Influenzarli più che esserne influenzati. Invece loro erano mandati in base a una selezione, severa e con compiti propagandistici ben precisi». Appena ora si scopre che le lezioni degli ospiti erano imperniate sui temi irredenti¬ stici o dottrinari (la grande Albania storica e llnsegnarnento stalinista di Enver Hoxha). Viene pure rivelato con ritardo che i gruppi culturali cercavano dappertutto di inscenare manifestazioni nazionalistiche e anti jugoslave, arrivando a pretendere che fossero tolti o ricoperti i ritratti di Tito nelle sale dove si svolgevano gli spettacoli, addirittura negli autobus che Il portavano in giro. Si è scoperto che uno dei conferenzieri era addirittura nipote di Enver Hoxha. Da parte jugoslava ora fanno l'autocritica: «Pensavamo di dover essere tolleranti per non spingere gli albanesi nelle mani dei sovietici». Da Tirana è stato anche imposto che gli scambi fossero ristretti al solo Kosovo, albanesi con albanesi, sema includere il resto della Jugoslavia o passare da Belgrado. E gli jugoslavi acconsentivano contando che II Kosovo potesse svolgere II ruolo di «ponte» frai due Paesi. Giudica ora U professor Sa■ liu, i presidente. ■ della... Corte Costituzionale: «Eravamo forse ciechi? L'influenza di Tirana era prevedibile dato che puntava tutto sulle nostre contraddizioni. Noi sbagliavamo credendo che il nostro sistema fosse tanto forte da assorbire per sé stesso l'Influenza del sistema dog¬ matico. Per non dare l'Impressione di voler imporre il nostro sistema abbiamo rinunciato alla critica del socialismo autoritario e statale. Qui invece il sociale si collega al nazionale, il nazionale al nazionalistico ed il nazionalistico all'irredentistico». Cosi una parte degli studenti si è trovata spinta alla protesta clamorosa, che nemmeno l'Intervento di alcuni professori è valso a scongiurare. Altri professori sono sospettati d'avervi preso parte. Consola poco sentire che docenti albanesi, ritornati a Tirana, siano stati destituiti e mandati in provincia per il sospetto di essere contagiati dal revisionismo Utoista. Ora in tutto il Kosovo, nel quadro della •differenziazione» politica vengono destituiti i professori considerati colpevoli delle manifestazioni (le sanzioni sono applicate a un centinaio). Gli studenti che hanno partecipato al moti vengono privati delle borse di studio e quelli che erano tra gli organizzatori espulsi dalle scuole. Repubblica Non tutto il fenomeno nazionalìstico può essere attribuito all'abile manipolazione di Tirana. Anzi il nazionalismo ha preso il volo sulle ali di un euforico •piemontesismo» della stessa intelllgenctja del Kosovo. Avendo conseguito l'autonomia e i mezzi per esprimerla, gli Intellettuali della regione sono stati attratti dall'ambizione di fondare qui il centro del vero risorgimento storico e culturale degli albanesi. Questa ambizione traspare da tutti gli intellettuali che incontro: chi la giustifica con II desiderio di dimostrare quanta libertà hanno conseguito gli albanesi nella federazione jugoslava, chi la motiva con la speranza di poter riscattare gli albanesi dell'Albania, oppressi dallo stalinismo, coinvolgendoli nel risorgimento ritardato. ■■■■ ••■■< n - Nemmeno i politici della regione sono stati insensibili a simili ambizioni. Alcuni pensavano di allargare il proprio prestigio politico dimostrandosi •buoni albanesi»; si sospetta che altri abbiano concesso spazio alle rivendi¬ cazioni nazionalistiche per: trovare argomenti più forti nelle richieste d'aumento del' sussidi federali alla regione. Viaggiando per il Kosovo non ho più assistito a scontri né a incidenti. Dappertutto una febbrile attività politica per smontare e prevenire i moti di protesta. Di notte però i nazionalisti riescono a scrivere i loro slogans sui muri, n più ricorrente dice: «Kosovo - Repubblica». L'ho visto anch'io su un ponte vicino a Djakovica. Scritti In verde, vengono poi durante il giorno ricoperti di rosso dagli attivisti del partito. Il Kosovo è già una specie di repubblica: per costltuzio^, ne è uno degli elementi della Federazione e il suo rappresentante siede a pari diritti con quelli delle repubbliche nella presidenza collettiva dello Stato. In un turno, con Tito vivo, l'albanese Fadtl Hoxha sostituiva anche II capo dello Stato. Perché non può diventare repubblica anche formalmente? Su questo punto verte oggi la maggior parte delle polemiche. La parola d'ordine «repubblica», si dice, nasconde una tappa del disegno che ha come scopo finale la «grande Albania». Secondo la Costituzione, le repubbliche vengono costituite come Stati dalle nazioni facenti parte della Jugoslava. La nazione albanese ha creato già il suo Stato in Albania. La sua minoranza, che vive in Jugoslavia, non può di conseguenza costituirsi In Stato, può godere soltanto della massima autonomia. Anzitutto non può godere del diritto, spettante alle repubbliche, all'autodeterminazione e alla separazione. Il secondo Stato albanese, inserito nella federazione jugoslava, comporterebbe un pericolo all'integrità della Jugoslavia stessa, non soltanto a causa delle tentazioni irredentistiche ma anche per gli squilibri che causerebbe. Oggi gli albanesi nel Kosovo sono quasi l'SO per cento, l serbi si avvicinano appena al 15 per cento su un milione e mezzo di abitanti. E tendono a diminuire: dopo le manifestazioni al grido «fuori i serbi» su parecchi steccati dei villaggi sono apparse le scritte «casa in vendita». Storicamente però il Kosovo è stato il centro del regno serbo nella sua epoca fiorente. Nella chiesa patriarcale di Pech, viene tuttora incoronato il patriarca della chiesa ortodossa serba. A Decani troviamo le tombe dei più grandi re della dinastia Nemanlc. Nella storica battaglia del Kosovo i turchi hanno sopraffatto l'esercito serbo, sulla fine del '300, imponendo una lunga occupazione. Se rendere autonoma la regione poteva portare qualche frustrazione alla nazione più numerosa della Jugoslavia, il distacco del Kosovo sarebbe stato per i serbi un vero dramma nazionale, capace di compromettere i complessi equilibri federali. Dai moti della primavera si comprende come il Kosovo sia un problema strategico esistenziale per la Jugoslavia. Mi dice Azem Vlasi: «Non per caso hanno scelto qui il "giorno X" quanti volevano assestarci un colpo dopo la morte di Tito». Le apprensioni sono duplici. A Belgrado si preoccupano del come consolidare il Kosovo. Nel Kosovo si preoccupano di non veder ristrette nel consolidamento le autonomie acquisite. Irresponsabilità Non è difficile cogliere nella capitale una certa sfiducia, non nelle Intenzioni dei dirigenti •kosovari», ma nella loro capacità di sanare il disastro e prevenirne di ulteriori. D'altronde, se la Federazione iugoslava corre rischi nel Kosovo, ne correrebbe altrettanti venendo meno ai propri principi di autonomia. Insiste il professor Popovei: «Non si deve mettere in dubbio la lealtà degli albanesi. Saranno leali verso la Federazione jugoslava a seconda dell'autonomia di cui godranno. Oggi sarebbe Impossibile e controproducente cercare di lasciarli un'altra volta senza la loro storia». Una storia che hanno scoperto ultimamente, sulla scia della riforma Utoista della Jugoslavia. Il problema diventa grave dal momento in cui quella storia è sfociata paradossalmente nella negazione della Jugoslavia. Dice Azem Vlasi: «I danni immediati potremo sanarli in pochi mesi. Però 1 disordini ci hanno portato indietro, per. un decennio. Quello che è stato incrinato è la, fiducia. Perciò ad esserne danneggiati dai moti nazio- '■ nalisti sono in primo luogo gli albanesi». E Popovd aggiunge: «Più che quella dei manifestanti mi colpisce l'irresponsabilita della madre patria». Frane Barbieri

Persone citate: Azem Vlasi, Enver Hoxha, Hoxha, Pech