De Pisis, mite randagio nella bufera

De Pisis, mite randagio nella bufera RICORDANDO IL PITTORE E GLI ANNI LONTANI DELLA GUERRA De Pisis, mite randagio nella bufera Pareva voler esorcizzare la violenza con i suoi teneri, fragili colori De Pisis arrivò a Vicenza nel 1940, attratto da un suo bellissimo gitone, al quale regalò un garofano rosso dipinto su una tavoletta alta e stretta. Ma più che il giovane dovette piacergli la città perché, dopo un breve soggiorno all'Hotel Roma, aperse uno studio (per modo di dire), in via Canove, nella baracchetta vuota di un falegname, che vi aveva lasciato un buon odore di vecchie tavole. De Pisis, abituato alla corsività degli studi parigini, al caos di quello di rue Servandonne, portò nella baliverna un materasso e inventò, 11 per 11, il necessario per dipingere e scrìvere. Oltre a! cavalletto e alla scatola dei colori, qualche panchetto, due sgabelli, un servizio per lavarsi, bottiglie, il fornello elettrico, sontuose camicie appese ai chiodi. Ne portava di molto belle, a righe di colori vivacissimi. La gran luce verde Il gitone dovette uscirgli presto dalla mente. De Pisis era divorato dal gusto di dipingere all'aria aperta; e dipinse infatti alcune vedute di Vicenza, da Ponte/uro col fiume, la Piazza delle Erbe con le tende bianche, e quella dei Signori sotto la pioggia. La gente si era abituata a vedere per le strade quel signore un poco eccentrico, che parlava con voce soave leggermente nasale, il cavalletto piantato nei posti topici. Il solo a Vicenza che si accorse di lui, fu Antonio Rei, che gli comperò due tele, sciaguratamente distrutte dal bombardamento alleato di Villa Fogazzaro il 28 dicembre 1943. Una mattina lo accompagnai al mercato sotto la Basilica. Era non soltanto un uomo affabile, dal tratto aperto e rìdente, il sorrìso dietro il monòcolo, ma un pagatore gentile. All'uccellatore, che gli spiega¬ va come non si potessero cucinare insieme un merlo nero e un pettirosso, aveva risposto che mai si sarebbe risoluto a farlo, nemmeno sul punto di morire di fame. Comperava quegli uccelletti per dipingerli. E taceva nell'aria dei segni scattanti con la mano inanellata. Poco più in là, alla venditrice di funghi, domandò il permesso di sceglierne alcuni; e scelse infatti quelli eccitanti di colore, e li avvolse poi in un vecchio giornale. Due giorni dopo la Natura morta col merlo nero era appesa al muro della baliverna, proprio vicino all'inferriata. Il taglio degli oggetti raggruppati sulla carta gialla era curioso: cacciati in un angolo, lasciavano apparire un lembo del vecchio giornale, col nero del merlo e il vellutato dei funghi striati di rosso e di turchino. Non si capiva perché dalla tela uscisse una grande luce verde. Quella tela credo sia stata acquistata per 700 lire da Giuseppe Raimondi, che da Bologna venne a salutarlo a Vicenza. Allora De Pisis non vendeva i suoi dipinti, li donava. E continuò a farlo per tutta la vita. Al mercante di quadri Zamberlan cedette in quei giorni una ventina di grandi acquarelli e disegni per 300 lire. De Pisis scomparve da Vicenza senza nessun preavviso. Lasciò scritto sulla porta della baracchete del falegname, col gesso, che andava a Milano, Hotel Vittoria in via Durini; e qui infatti tornai a incontrarlo nell'inverno del 1942. Gli conducevo un amico che desiderava acquistare un mazzo di fiori. Saliti in camera sua, mi accorsi subito che costui non sapeva dove girarsi. C'erano dipinti dappertutto: ovunque vi fosse spazio per posarli o appenderli, si vedevano immagi' ni della periferia di Milano, specie lungo i Navigli; e biglietti come promemoria, scritti con quella sua calligrafia uncinata: Inverno nel parco. Ricordarsi della Braserà sul canale. Fiori della Tecla. Saluti a Morandi. Chissà perché, il piccolo dipinto di bottiglie nere e di scatolette di fiammiferi svedesi gli aveva ricordato il maestro bolognese. Fiori nelle calli L'amico comperò due mazzi di fiori; e spinse la propria generosità fino ad acquistare {'Inverno nel parco, col laghetto plumbeo illuminato da un gruppo di cigni. E pagò gli uni e l'altro lire 1300. Quello che stupiva di tante immagini era la luce argentea che le avvolgeva e le improntava: luce milanese. Perfino nei mazzi di fiori dominavano gli azzurri, i gialli, i verdi marciti. La discrezione di alcuni viola fosforescenti — petali di dalie — era di una vivezza struggente. Quel giorno De Pisis indossava un completo di velluto turchino a coste larghe, una camicia di fustagno grigio con un fiocco di seta color ciclamino. Teneva fisso il monocolo incastrato nell'orbita. Era stato lo stesso pittore ad avvolgere avventurosamente i tre dipinti acquistati; e quando scendemmo a colazione disse al maestro di casa, graziosamente, che eravamo suoi ospiti. Non una parola sugli avvenimenti bellici che incalzavano, i disastri cui era andato incontro il Corpo di Spedizione italiano in Russia, che già assumevano contorni precisi. La guerra pareva combattuta su un altro pianeta. Soltanto un attimo De Pisis parlò delle pitture abbandonate nello studio parigino di rue Servandonne, disse che aveva pregato un alto ufficiale austriaco di un servizio delicato: schiodare le tele dai telai, arrotolarle e fargliele avere a Milano. Le opere, imballate in modo impeccabile, arrivarono nel giugno del 1943 al Cavallino di Carlo Cardazzo, in Riva degli Schiavoni, a Venezia; e mi resta ancora negli occhi la prima tela: una Natura morta di fichi viola su un fogliaccio di carta gialla. Il primo bombardamento milanese — De Pisis abitava allora in via Rugabelia — deve avere terrorizzato l'artista, se abbandonò la capitale lombarda per Venezia, dove avrebbe continuato a dipingere a dispetto di tutti i disastri della guerra; e fu Carlo Cardazzo a trovargli l'abitazione a San Barnaba, sul rio. De Pisis era sicuro che Venezia sarebbe rimasta intoccata. Il mondo andava in frantumi, e lui voleva continuare a dipingere. I tedeschi bruciavano Londra, gli americani scaricavano sulla Germania migliaia di tonnellate di bombe, le armate germaniche erano respinte a Stalingrado e a Leningrado, del Corpo di Spedizione italiano in Russia rimpatriavano qualche migliaio di uomini. La Libia era perduta, perduta l'Abissinia. Gli americani, attestati sulle sponde dell'Africa si preparavano a sbarcare in Italia; e De Pisis aveva un solo pensiero: continuare a dipingere le sue vedute veneziane, fiori, nature morte. Ora girava per le calli con Colò sulla spalla, e ogni tanto gli rivolgeva la parola. Dipingere era il solo modo che aveva di protestare contro la follia di quella guerra insensata. Girava per le calli veneziane passando nei campi che amava. Santo Stefano, Sant'Angelo; e quando si fermava era segno che stava per nascergli un'idea. Una mattina, al Cavallino guardò con curiosità un grande mazzo di fiori che stava alle spalle di Cardazzo; poi, stacca ta la pipa dai denti: «Bello — diceva — ma non mi ricordo di averlo dipinto». E a Varagnolo, che gli aveva fatto il verso, schizzando una tavoletta alla De Pisis, e ora gli domandava di firmarlo, aveva detto maliziosamente indicando gli oggetti della natura morta: «Guardi il campanello. Suona!». Una sola volta sono riuscito a vederlo dipingere (e aveva come aiutante, nel 1946, Gianni De Marco): in Fondamenta dei Greci, basso sulla calle, si era trovato davanti a uno dei luoghi veneziani più vasti complessi. Ebbi la fortuna di arrivare che la tela era appena segnata di qualche giallorinonero, a definire il taglio della veduta. Stava tracciando le coordinate, come il nostromo sulle carte fa il punto sulla posizione del suo veliero. Lavoro febbrile Ogni tanto, con un mozzicone di pennello, sporcava la lunga fondamenta, come se su quella dovesse posarsi la veduta. Insomma gli premeva definire il telaio del paesaggio, come uno che vuole andare sul sicuro. Affrontò d'impeto cielo nuvoloso. La rapidità con cui lavorava era impressionante. Dopo la stesura del cielo attaccò l'acqua del canale di un verde melmoso profondo. Usava i bianchi della tela con una rara astuzia. Lo seguivo anche nella ricerca degli strumenti: non usava pennelli, ma i resti dei pennelli rotti e smozzicati; e quando gli mancavano trovava una paletta per grattare le superfici. Dipinse gli alberi davanti a San Lorenzo con una leggerezza volante, verdi teneri e turchini, Quando si staccò dalla tela era madido, la camicia coperta di grandi macchie di sudore. Neri Pozza