All'asta gli illustratori che scesero nell'Inferno di Dante

All'asta gli illustratori che scesero nell'Inferno di Dante Antiquariato All'asta gli illustratori che scesero nell'Inferno di Dante NEL maggio 1900, con un gesto tipico per il committente del secolo scorso, Vittorio Alinari, «proprietario dello Stabilimento Fotografico Alinari, di Firenze», bandiva un concorso per l'illustrazione della Divina Commedia. Gli artisd concorrenti dovevano presentare entro il 30 marzo 1901 l'illustrazione di due canti dell'Inferno più testate e finali relativi; due sarebbero stati i premi, il primo di 300 lire, il secondo ^di 250: con i non premiati l'Alinari avrebbe trattato l'acquisto delle opere scelte a illustrare, riprodotte fotograficamente, un'edizione del poema. Il gesto presupponeva mecenatismo e occhio imprenditoriale, amore dell'arte e fede nella tecnica che la riproduce, intuito pubblicitario e culto del poeta nazionale; un culto allora celebrato a Firenze con grande ardore, tra lambrecchini e ferri battuti, gonfaloni e barbe intemerate di filologi. La pregnanza d'immagine e di visione della poesia dantesca è sempre stata fertilissima di stimo¬ li figurativi; da Giovanni di Paolo a John Flexman. da Botticelli a Guttuso, una folla di artisti, i più diversi fra loro, anche alcuni che paiono remoti dal mondo e dal sentire del poeta, si è misurata con la Commedia. £ se la risposta al bando di Alinari fu in conclusione scarsa di numero, tuttavia tra i partecipanti al concorso (32 artisti) e tra quanti (una sessantina) seguitarono l'impresa con le illustrazioni per le altre due cantiche, troviamo ben rappresentate le tendenze della vita artistica italiana fin de siede: il genere storico e il verismo, l'accademia e il liberty, i preraffaelliti e il simbolismo, patriarchi come Fattori, giovani come Novellini e Alberto Martini o giovanissimi come Spadini, artisti versatili come Chini e Cambellotti, illustratori come De Carolis e Baruffi, uno scultore come Libero Andreotti, un cartellonista come Mataloni. La giuria, presieduta da Isidoro Del Lungo, fu severa con i concorrenti: «L'esito di questo concorso — affermava il verdetto — non corrispose né alle speranze di chi molto opportunamente e liberalmente lo bandiva, né all'attesa di quanti accorsero all'esposizione...». Premiava, è vero. Zardo. Spadini, 'Cambellotti e Bellandi, ma «più per un incoraggiamento agli artisti che avevano dato prova d'essersi messi con serietà di propositi al difficile lavoro, anziché come riconoscimento di pregi eminenti e assoluti». E anche quando, due anni dopo, apparve l'edizione delle tre cantiche, le riserve, che soprattutto rilevavano l'eterogeneità tecnica e stilistica delle illustrazioni e la discrepanza — anche fattuale per distratta lettura — dal testo dantesco, le riserve furono maggiori dei consensi. Più benevola la critica moderna quando il grosso delle opere concorrenti, passato nelle mani di un collezionista di Pistoia (ma alcuni fogli sono al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi), fu esposto due anni fa alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna e illustrato in un dotto, esauriente catalogo. 1 riconoscimenti vanno soprattutto all'importanza storica dell'impresa che. come afferma Carlo Crespi in uno dei saggi introduttivi del catalogo «raccoglieva le attestazioni della prima inequivocabile consistente espressione figurativa italiana di segno modernista». «L'impresa Alinari — ribadisce' l'altro curatore della mostra, Franco Solmi — offrì un'immagine credibile della complessità dei valori messi in campo da una cultura che si era scoperta con orrore provinciale dopo le illusioni del Risorgimento e le delusioni dell'epoca postunitaria». Secondo Paola Pallottino quella Divina Commedia è «uno dei più affascinanti e ambigui monumenti dell'illustrazione italiana». Ora tutto, o quasi tutto, quel che fu esposto a Bologna (manca, ci pare, soltanto il bello Spadini «preraffaellita» che apparteneva ad un altro collezionista privato, mentre i Fattori e i Sartorio mancavano anche a Bologna) viene disperso in una vendita all'asta di Sotheby giovedì 18 giugno nel Palazzo Capponi a Firenze (esposizione a Milano, 25-29 maggio e a Firenze 9-17 giugno). A vederli stipati sulle pareti delle sale milanesi della casa d'aste, quei 228 pezzi tra fogli e quadri fanno alla prima un'impressione di tetraggine, impressione dovuta certo alla trivialità umbertina di tante opere ma anche al fatto che per le necessità della riproduzione fotografica d'allora, cui la scelta tecnica dell'editore li sottomise, gli originali son tutti monocromi o in bianco e nero. E proprio quel tipo di riproduzione, se lasciava liberi gli artisti di presentare lavori nelle tecniche più diverse, dall'olio al carboncino, mortificava però quegli aspetti artigianali propri dell'illustratore di libri che stavano a cuore ad alcuni — Cambellotti per esempio — professanti il credo di Aris and Crafts. Sarà dunque bene sceverare e guardare, senza tener conto dell'impresa editoriale, alle singole opere, alle particolari qualità degli artisti: al segno inquietante di Alberto Martini (qual angelo più del suo fu «pier. di disdegno»?), a quello sensibilissimo di Galileo Chini (in un carboncino che ha ben poco di dantesco), alla potenza evocativa di Cambellotti (è una citazione da Fùssli la sua ghiaccia di Cocito coi piedi dei giganti?), alle reminiscenze blakiane di Libero Andreotti. Dove l'attrito tra l'immaginario dantesco e le scelte stilistiche dell'artista morde più forte è proprio nei lavori del primipremiato Zardo: Gerione ha il volto un po' assorto d'un azzimato giovane appena uscito dalle mani del parrucchiere; la «turba magna» degli accidiosi è un'ottocentesca società di salutisti che corrono disciplinati e un po' impacciati nella loro tonda nudità di cittadini. Ne nascono non disprezzabili esiti surrealistici, se surrealismo è lo sfrigolio del mito . immerso nella banalità. Mario Spagnol Inferno Canto XXI: «Ma ei gridò: Nessun di voi sia fello!...» di Adolfo Magrini Inferno Canto X: «Quando s'accorse d'alcuna dimora...» di Anton M. Mucchi Vignoli

Luoghi citati: Bologna, Firenze, Milano