Riflettori su Mendès France

Riflettori su Mendès France PER LA VITTORIA DEI SOCIALISTI IN FRANCIA Riflettori su Mendès France (H ritorno dell'uomo politico più amato e odiato dopo De Gaulle) DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE PARIGI — Per descrivere Pierre Mendès France durante l'ampio arco della sua vita politica i cronisti hanno intinto senza ritegno le loro penne in Sofocle, Eschilo, Euripide, Molière. Mendès, uomo schivo, ne deve aver sofferto. Lo hanno via via paragonato a Cassandra perché veggente inascoltato, ad Antigone per la predestinazione al dolore e la forza morale, ad Alceste, non tanto per la misantropia quanto per la rigida virtù, per l'amore ossessivo della verità mai taciuta e mai tradita. Sono ricorsi alla mitologia, alla tragedia greca, ai grandi classici del teatro con trasporto, ironia o perfidia. Sempre con passione. Mendès è stato l'uomo politico più ammirato e odiato, dopo De Gaulle. Ed è singolare che sia stato tanto detto e scritto su di lui che ha governato la Francia per soli 245 giorni. Pierre Mendès France è stato presidente del Consiglio per otto mesi e cinque giorni: un periodo molto breve anche per la Quarta Repubblica che viveva le crisi di governo a ritmi italiani. L'assemblea nazionale gli concesse la fiducia il 18 giugno 1954 e gliela tolse il 5 febbraio 1955. Restò tuttavia per sbrigare gli affari correnti nel settecentesco Hotel Matignon fino al 25 dello stesso mese nell'attesa del successore. Questa cronologia un po' pedante può apparire eccessiva. Ma sono trascorsi 27 anni e quel breve governo è ancora oggetto di studio. Anzi Mendès ritorna d'attualità. Jean Lacouture, biografo di Malraux, Mauriac e Leon Blum, gli ha dedicato un libro: un'attenzione per un uomo politico vivente e da tempo lontano dal potere non tanto frequente nella Parigi che si dedica al culto e alla dissacrazione dei personaggi sulla cresta dell'onda, non di quelli nell'ombra. Ma si riparla adesso di Mendès soprattutto perché si ritiene che la vittoria della sinistra, il 10 maggio scorso, con l'elezione di Francois Mitterrand, debba essere almeno in parte attribuita al presidente del Consiglio di più di un quarto di secolo fa. A lui il neo-presidente socialista della Quinta Repubblica ha riservato del resto il solo abbraccio, il giorno dell'investitura, e ha rivolto parole significanti. Ha riconosciuto pubblicamente che senza la lunga azione, spesso solitaria, di Mendès egli non avrebbe conquistato il palazzo dell'Eliseo, da 23 anni occupato dalla destra. Al di là della retorica del momento, c'era molta verità nelle parole di Mitterrand. Mendès non ha soltanto governato con rigore e coraggio durante quei 245 giorni: in seguito ha tentato di mantenere viva e pulita l'immagine di una sinistra intaccata profondamente dai socialisti, sulla coscienza dei quali pesavano, oltre ai tanti peccati commessi durante la Quarta Repubblica, anche le torture e le repressioni in Algeria e la spedizione di Suez contro l'Egitto di Nasser, colpevole di aver nazionalizzato il Canale. ** Nel regime che domani si consoliderà — con l'ultimo voto di questa intensa stagione elettorale francese — si scorge un'evidente venatura mendesista, vi sono uomini che si rifanno agli insegnamenti del settantaquattrenne signore in abito scuro, scavato dalla malattia, avaro di parole, sempre fedele alla leggendaria rudezza di carattere e al tempo stesso cortese, talvolta cerimonioso, come esige la buona educazione dagli uomini che contano. Anche per questo su Pierre Mendès France si sono puntati i riflettori. Non sulla sua persona, poiché per l'età e i malanni egli resterà in disparte, ma appunto sull'eredità che ha lasciato alla sinistra ora vincente. Ma cos'è il mende-sismo? Anzitutto Mendès rifiuta questa espressione, l'ha sempre subita con fastidio. Lui stesso non saprebbe spiegarla. Non è una dottrina, non è un'ideologia, neppure un semplice sale di governo. E' forse un comportamento. Dice Mendès: «Il dovere di un responsabile politico non consiste nel sapersi barcamenare, nell'avere incessantemente riguardi per gli uni o per gli altri, sacrificando così l'in teresse dell'intera collettività. Esige delle scelte, chiare determinazioni, con la volontà di attenervisi nell'opposizione come al potere». E una massima semplice, moralistica, difficile da rispettare. Significa che un uomo po- Mendès France in una caricatura di David Levine (Copyright N.Y. Review of Books. Opera Mundi e per ntalla .La Stampa.) litico deve saper essere sgradito, impopolare se necessario. Mendès lo è stato spesso. Questa è stata una delle sue caratteristiche. E' stato un pessimo politicante, un buon uomo di governo, un oppositore tenace, coerente, fino alla testardaggine, fino ad avere a volte chiaramente torto. Non stupisce che abbia subito molte sconfitte e conseguito pochi ma qualificanti successi. Nonostante sia stato paragonato con insistenza all'eroina troiana dallo sguardo penetrante, Mendès non è mai stato una Cassandra della politica francese, non ha mai assunto atteggiamenti profetici. Si è sempre accontentato di fare dei conti, di studiare le statistiche, di tenere d'occhio gli indici di produzione, di comparare le promesse elettorali e le realizzazioni dei vari governi, compreso il suo. Alle cifre e ai calcoli ha aggiunto la sua immaginazione, stimolata e disciplinata dalla continua convivenza con gli economisti classici e moderni, da Smith a Ricardo, da Say a Keynes, da Veblen a Leontieff, da Galbraith a Perroux. Il suo principio di base, scrive Lacouture, è che non si violano né i fatti né le cifre. Da qui il suo rigore, la sua regola, che si può riassumere così: razionalizzare il reale. Per l'economista Mendès si parte dai dati contabili, ma quel che importa non è l'equilibrio del bilancio, ma piuttosto la dinamica implicita a un certo squilibrio, non la stabilità ma il flusso, non la ricchezza ma la produzione della ricchezza. Per lui bisogna distinguere tra interessi particolari e l'interesse collettivo (l'interesse generale dei giacobini), da qui la necessità del piano, attorno al quale deve funzionare la democrazia. E ancora, per Mendès, i problemi monetari devono essere subordinati all'economia, che deve essere subordinata ai problemi sociali, il tutto essendo in definitiva politico. Riformista rispettoso delle cifre, innovatore devoto alle leggi, non a caso anglofilo, Mendès France è un esempio per molti uomini oggi al governo a Parigi. Nel linguaggio del ministro dell'Economia, Beloni, o del ministro del Piano, Rotarci, si trovano molti concetti mendesisu, anche se l'ex presidente del Consiglio è stato nei momenti fasti soprattutto un «borghese di sinistra», mentre Delors e Rocard sono «socialisti di destra». La conversione del radicale Mendès al socialismo è stata tardiva ed è avvenuta quando il movimento radicale francese, trionfante nella Terza Repubblica e agonizzante nella Quarta, si era ormai praticamente spento nella Quinta. Anche nella precipitazione di Mitterrand nel rispettare appena investito presidente gli impegni assunti durante la campagna elettorale si intravede una traccia mendesista, ossia la nozione del contratto estesa alla vita politica: si studia un progetto, lo si discute, lo si annuncia, si stabilisce un contratto tra governo e Paese e lo si applica. Quando nel '54 Mendès si presentò in Parlamento per chiedere il voto di fiducia disse che per mettere fine alla guerra d'Indocina ci sarebbero voluti 30 giorni. Ai deputati abituati ai rinvìi e alle ambiguità disse: «Oggi è ti 17 giugno, mi presenterò davanti a voi il 20 luglio per informarvi sui risultati ottenuti. Se non sarà trovata una soluzione soddisfacente, sarete liberati dai contratto sottoscritto con il voto e il mio governo darà le dimissioni». Quella volta riuscì ★ ★ Sempre in quella occasione rifiutò il volo dei comunisti perché il loro sostegno e una loro eventuale partecipazione al governo avrebbero gettato delle ombre sulle trattative di pace. Il pcf aveva appoggiato gli avversari della Francia, cioè i vietnamiti. Più tardi Mendès spiegò che era «il libero negoziatore e non il democratico di sinistra» a respingere i voti dei comunisti, ma questi ultimi non glielo perdonarono mai. Altra caratteristica mendesista fu la rapidità dell'azione di governo, tendente a colpire e a mobilitare l'opinione pubblica. Una sua massima era: un dossier alla volta. Niente dispersione degli sforzi. E' uno sale che i socialisti fedeli ai suoi insegnamenti vorrebbero adottare negli Anni 80. Nella coerente linea politica di Mendès non mancano le cono-addizioni e gli errori. Ve ne sono di madornali. La sua passione d'aver ragione lo ha spesso condotto a persistere negli sbagli. Non aveva certo torto quando condannò il ritorno al potere di De Gaulle nel '58. Era stato combattente e ministro nella Francia libera e il generale l'avrebbe probabilmente voluto con sé ancora una volta, ma Mendès non poteva accettare l'avvento della Quinta Repubblica attraverso un «colpo di forza». La sua tenace critica alle istituzioni volute poi da De Gaulle si è rivelata tuttavia infondata, poiché sono proprio quelle istituzioni a rendere stabile adesso il nuovo potere di sinistra. L'alternanza democratica si è dimostrata possibile. La Quinta Repubblica non è un colpo di Stato permanente della destra, come scriveva il Mitterrand capo dell'opposizione, con il consenso di Mendès. C'è poi il Mendès del '68, che sulla scia della rivolta di maggio stava per ritornare al potere. Lui, che dieci anni prima aveva respinto il «colpo di forza» gollista, sembrò disposto in quell'occasione a servirsi di una situazione che sembrava rivoluzionaria, che era comunque illegale. Non sono errori insignificanti. Ma tolgono poco al personaggio. Un Mendès perfetto, senza cedimenti e senza qualche passione irrazionale, senza un certo candore, affascinerebbe molto di meno. Bez nardo Valli Ci Od

Luoghi citati: Algeria, Egitto, Francia, Indocina, Parigi