L'idea di lavoro

L'idea di lavoro COME È MUTATA DAI SUMERI A OGGI L'idea di lavoro E' di questi giorni la notizia che vi sono molti diplomati e laureati tra i candidati (tredici per ogni posto), che aspirano ad un impiego di manovale nel concorso bandito dall'azienda comunale dei trasporti di Roma. £ la cosa ormai non sorprende, poiché sono frequenti i casi di possessori di un titolo di studio che partecipano a concorsi per lavóri cosiddetti «manuali» (per cui il titolo è più di impedimento che di vantaggio), soprattutto se banditi da aziende pubbliche. Il fenomeno ci dice qualcosa sul fascino crescente che esercita tra noi l'impiego «pubblico», da quello statale a quello comunale, attraverso una mirìade di enti. E la motivazione non è più la soddisfazione che il «travet» di un tempo provava nel sentirsi «senatore dello Stato» né la garanzia dei «pochetti ma sicuretti», poiché la sicurezza dello stipendio è ormai molto generalizzata, quando si sia ottenuto un impiego. Forse è la consapevolezza che anche il lavoro manuale in teoria più faticoso non pesa poi troppo all'interno di un ente pubblico. Ma assai di più tale situazione ci rivela quanto sia inutile e vana, dal punto di vista dell'occupazione professionale, l'attuale e sempre più diffusa corsa verso il diploma o la laurea. Salvo un numero limitato di settori, il mercato del lavoro può accogliere solo una piccola parte dei giovani sfornati annualmente dalle scuole superiori e dall'università, sicché molti si trovano o ad essere disoccupati o a ripiegare su «mestieri» che ritengono inadeguati alle capacità (spesso solo presunte) che credono aver acquisito negli anni della scuola. E si sa quanto il disagio psicologico dei giovani, i quali ritengano che la società non riconosce i loro meriti, veri o immaginari, possa indurli alle più spericolate avventure. L'ostinazione di tante famiglie e di tanti giovani nel battere la via bloccata dell'istruzione superiore, anche quando è palese la mancanza, nel cosiddetto «studente», della volontà, dell'impegno, delle stesse capacità intellettuali, è un fatto che fa meditare. Nel corso del nostro secolo sono via via scomparsi i motivi pratico-economici che, ancora nel periodo tra le due guerre, ad esempio, facevano sognare ad una famiglia di operai il conseguimento, da parte del figlio, di quel «pezzo di carta», che avrebbe rappresentato un salto qualitativo nella di lui vita. Ma ora non ci sono più stacchi netti tra «stipendi» e «salari», né differenze sociali percepibili e pesanti tra chi ha un «mestiere» e chi esercita una «professione». Talvolta, anche a pre scindere dai disoccupati intellettuali, la situazione si è addirittura capovolta. Nel persistere di questo comportamento, comprensibile nel passato ma non più adeguato ai tempi odierni, vi è forse qualcosa di là dalla logica, una motivazione che profonda le sue radici in una lontanissima tradizione culturale, di cui spesso non si è consapevoli e che tuttavia opera ancora in noi: la contrapposizione, sul piano del valore, del negotium all'ottimi, ossia, del lavoro marmale a quello intellettuale. Non ci siamo ancora liberati da questo dualismo radicale, che risale all'antichità, quando il procacciarsi il sostentamento con il lavoro manuale era spesso fatica immane, riservata ai servi, sebbene nell'età tecnologica in cui viviamo la fatica del lavoro manuale sia in proporzione inversa alla quantità di beni prodotti. 1! dualismo non poggia sulla diversità dei mezzi (la «mano» o la «mente») con cui prevalentemente si lavora, poiché, in realtà, non c'è lavoro manuale dell'uomo senza componente intellettuale, né lavoro intellettuale senza componente fisica. E ciò è palese, nella nostra epoca, attraverso l'intreccio profondo di scienza e di tecnica. La contrapposizione ha origine valutativa: il lavoro manuale, opera servile un tempo, continua ad essere visto negativamente; e solo esso è considerato lavoro, cioè pena e travaglio, mentre l'otium del lavoro intellettuale pare proprio del «signore», che il servo libera dalla preoccupazione del sostentamento e che non fatica in quella ricerca del sapere costituente la vera umanità. Che questa visione sia discutibile e che anche il lavoro intellettuale costi fatica e pena è stato visto da molti: la stessa conoscenza è stata detta da Kant, ad esempio, «lavoro erculeo». Ma ciò non toglie che nella nostra cultura resti domi¬ nante una filosofia «dualistica» del lavoro, che privilegia unilateralmente l'attività intellettuale e la fa diventare oggetto d'invidia da parte del lavoratore manuale, che presume nella cultura ozio, agio e comodo. E' sulla base di tale filosofia implicita del lavoro che si riesce a capire meglio fatti paradossali come quello che ho ricordato all'inizio. E il concetto di «lavoro», del resto, non è separabile da una trama più complessa di concetti, cioè dalla visione filosofica che ci formiamo dell'uomo e della sua vita nel mondo. Sta qui il grande interesse del progetto di una Filosofia del lavoro, in sette volumi, ideato da Antimo Negri, e del quale sono ora usciti, presso l'editore Mar/orati, i primi due: «Dalle civiltà orientali al pensiero cristiano antico» e «Dal Medioevo al Settecento preilluminista». Negri si propone di «offrire un quadro storico, il più completo e più articolato possibile, dell'idea di lavoro come segno dell'umanità più differenziata dell'uomo». E lo fa mediante un'amplissima scelta antologica di scritti sul lavoro, molti per la prima volta tradotti in italiano, partendo da brani sumerici per giungere, quando uscirà il volume settimo, ad un flash sulla letteratura filosofica odierna circa il lavoro. I penetranti «discorsi introduttivi» premessi da Negri danno unità all'antologia, arricchita, parte per parte, da una «bibliografia essenziale». Per apprezzare appieno quest'opera del tutto originale si dovrà attenderne il completay v mento. Ma già i primi volumi valgono a mostrare quanto schematismo semplificatore, rispetto alla ricchezza delle testimonianze del passato, vi sia nell'opposizione dualistica di negotium e otium tuttora operante. Essa non è stata la sola risposta data anche in tempi lontani, quando pur alcune condizioni storiche e la mancanza di un pensiero tecnico e di una scienza applicata rendevano più plausibile la contrapposizione tra il lavoro servile e la contemplazione libera. Da queste pagine traspaiono anche due grandi linee interpretative del «lavoro» nel corso delle complesse vicende della cultura umana: la fatica del lavoro e l'angoscia per la morte sono i due fatti che più hanno stimolato l'uomo ad interrogarsi sul significato della propria esistenza. Dare un senso alla vita comporta anche rendere significante la fatica del lavoro. Un primo orientamento, costante pur attraverso il variare delle epoche, è quello che vede nel lavoro una condanna, sia essa d'origine divina o connessa con l'animalità dell'uomo e con la penuria dei beni. «E' a prezzo di fatiche che gli dèi ci offrono in vendita tutti i beni». Si sa che anche il conoscere è fatica; ma è da tale orientamento (non assente neppure nella tematica marxista) che nasce soprattutto il dualismo di negotium e otium, inteso quest'ultimo come liberazione finale dalle cure mondane. Un secondo orientamento, tuttavia, spesso intrecciato con il primo, dà un significato al lavoro esaltandone la positività. Anche questo è un tema presente nel marxismo, quando fa del lavoro l'essenza dell'uomo che riesce ad assimilarsi la natura. E' il tema dell'homo faber, che Negri ben documenta, ad esempio, attraverso le pagine dei nostri umanisti. In questa direzione si può addirittura fare del lavoro, legato alla finitudine dell'uomo, un analogo dell'atto divino della creazione e un'integrazione dell'opera di Dio. In entrambi gli orientamenti il senso del lavoro è ricercato attraverso il tentativo di determinare l'essenza dell'uomo, sia quando si degrada il lavoro a inevitabile condanna sia quando lo si esalta come sicura, eroica trasformazione della natura. Il lavoro acquista cosi un senso soltanto entro una visione assoluta e definitiva delle sorti umane. E se, invece, quei frammenti di significato, senza garanzia e certezza, che cerchiamo di dare alla nostra vita, venissero proprio dal «duro» lavoro, che tanto meglio soddisfa le istanze della sopravvivenza quanto più è, culturalmente, inventivo? Francesco Barone

Persone citate: Antimo Negri, Francesco Barone, Kant, Negri

Luoghi citati: Roma