UNA POLEMICA CHE RITORNA di Carlo Tullio Altan

UNA POLEMICA CHE RITORNA UNA POLEMICA CHE RITORNA Gli errori storici che umiliano il Sud Da qualche tempo tornano a leggersi sui giornali testi polemici sui temi di un'antica controversia italiana. Il confronto di meriti e di demeriti fra Nord e Sud, condotto sulla base di singoli episodi clamorosi, ma considerati isolatamente dal contesto storico sociale. Sono scontri in genere brevi, emotivi, poco argomentati. Poiché offrono scarse possibilità di sviluppo, ritorna presto il silenzio, un silenzio che non elimina tuttavia il problema che c'è e resta aperto. La reticenza non lo risolve, ma caso mai lo aggrava. Esso richiederebbe infatti una discussione seria, dopo averlo bene impostato, per avviarlo a soluzione. Prima di tutto non bisogna farne una questione di primati. Per fare un solo esempio, si provi a immaginare che cosa sarebbe la cultura italiana dalla metà del '700 in poi senza la presenza degli intellettuali meridionali nella filosofia, nella saggistica storica ed economica, e nella letteratura. Ben poca cosa, così come assai misera sarebbe la nostra economia senza le iniziative degli imprenditori e le risposte delle organizzazioni-politico sindacali dei lavoratori, che ebbero origine nel Centro-Nord d'Italia, a partire dalla fine del secolo scorso. Il problema non è quindi di superiorità e di inferiorità ma di diversità, una diversità di cui si tratta di conoscere le origini, il senso e le conseguenze. Essa è stata creata dalle vicende della storia, che si possono facilmente analizzare sotto questo profilo, perché i documenti non mancano. Il negarla o, peggio ancora, l'attribuire a tale diversità cause naturali, come il clima o il codice genetico, è invece un non senso. L'interpretazione razzista datane alla fine del secolo scorso dalla scuola di antropologia sociale positivista ha sottratto fino ad oggi questo problema ad una discussione critica, ricoprendolo di un tabù. E anche ora, chi è a corto di argomenti, vi fa ricorso nelle sue repliche stizzite. Razzismo, si dice appunto. E il discorso viene strozzato sul nascere dall'invettiva. La diversità riguarda soprattutto, e in modo più evidente, ciò che gli storici moderni chiamano la mentalità storica, gli antropologi la cultura o la personalità di base. I termini sono differenti ma ciò che denotano è la stessa cosa. Ogni forma storica di mentalità è il risvolto intellettuale di una società esistente, cui si adatta e alla quale serve, e si produce assieme a questa nel corso dei secoli. Essa ne rispecchia la complessità delle articolazioni di classe e la loro specificità, rifonde in sé in modo originale i vari apporti che le giungono dall'esterno, in modo creativo ed originale. Ha una sua vita propria e una sua autonomia relativa, ma sempre in stretta connessione con le altre componenti dell'insieme sociale. Dato che l'unità d'Italia si è realizzata poco più di un secolo fa, dopo millenni di storia, era inevitabile che gli Stati regionali che si erano creati nella Penisola con caratteristiche proprie, dessero vita a una notevole varietà di modi di pensare e di comportarsi. E siccome la mentalità storica, fra tutte le componenti di una formazione sociale, è quella che resiste di più ai mutamenti — come ormai la storiografia più moderna ha ampiamente dimostrato — tale diversità fra mentalità regionali è ancora in Italia molto fotte, nonostante il fatto che una relativa omogeneizzazione sul piano economico sia faticosamente in corso. Fino agli inizi dell'800 è prevalso in Italia un certo ordine sociale, seguito alla conclusione fallimentare del periodo della grande civiltà comunale e signorile, ordine che per lungo tempo è stato considerato solo sotto la prospetdva della «decadenza», ma che era fondato su alcuni principi molto ben definiti, che ne garantirono una secolare sopravvivenza: una proprietà fondiaria e immobiliare destinata a produrre rendite per mantenere un'aristocrazia parassitaria, quasi del tutto priva ormai di legittimazioni storiche, una borghesia scarsa e di poca intraprendenza, confinata per lo più a funzioni di intermediazione fra la classe proprietaria e i contadini e alla produzione di magri servizi, una massa di lavoratori agricoli sfruttati ai limiti della sopravvivenza, il tutto sotto l'insegna ideologica e sostanziosamente polidca del primato assoluto del Trono e dell'Altare, alleati fra loro. Questo assetto ha prodotto una mentalità, condivisa da tutte le classi sociali, ognuna dalla sua prospetdva, che ne costituì il solido cemento. Tale edificio cominciò a scuotersi solo a partire dalla seconda metà del 700, ma soprattutto in conseguenza degli eventi nati dalla Rivoluzione francese, e che ne promossero i mutamenti. I mutamenti, che si sono iniziati ben prima del processo di unificazione politica, non hanno interessato in modo uniforme l'intera e variegata compagine sociale italiana, ma molto di più le regioni centro-settentrionali che non quelle meridionali, più lontane dai centri di sviluppo europeo, e dotate di un sistema di classi assai più rigido, per le forti sopravvivenze feudali, tanto che la stessa nuova borghesia proprietaria meridionale di fine '800 venne definita allora da uno studioso lucano, il Racioppi, col termine di «neofeudalesimo borghese». Questo ha portato nel Meridione all'esaltazione di una caratteristica propria da sempre del ceto medio dell'Italia parafeudale tutta: il suo carattere inessenziale nella struttura sociale produttiva, carattere più netto nel Sud che non altrove in Italia. Questa collocazione offriva a questo ceto alcune possibilità e presentava grandi pericoli. Alcune possibilità, per la condizione di «libertà» da troppo stretti vincoli di interesse con la produzione e il mercato che essa rappresentava, condizione questa che facilita l'inventiva sbrigliata, e grandi pericoli, per la condizione di irresponsabilità sociale che una tale «libertà» comportava. Una realtà dalla quale possono prodursi creazioni intellettuali raffinate, di cui dà prova l'alta cultura meridionale da oltre due secoli a oggi, ma anche quelle forme sociali degenerative e parassitarie di cui i grandi meridionalisti, dal Fortunato, al Villari, al Salvemini, a Gramsci fino al nostro Sylos Labini, non hanno mancato di segnalare i tremendi e ricorrenti aspetti negativi. Nelle regioni settentrionali invece, nello stesso periodo, una buona parte del ceto medio subì una trasformazione profonda, inserendosi attivamente nelle nuove forme del processo produttivo ai diversi livelli, e sviluppando una mentalità adeguata e una nuova sensibilità ai problemi concreti, che questa classe ebbe in comune con i movimenti operai riformisti dell'epoca, che sottraeva, si, alquanto spazio alla fantasia intellettuale, come i fatti dimostrano, ma induceva anche le nuove classi a corresponsabilizzarsi di più in tutti i sensi alle sorti dell'intera vicenda sociale. Due figure emblematiche, che esprimono nella forma più alta questa diversità di orizzonti culturali, sul piano del pensiero politico innovatore, sono forse quelle di Filippo Turati, lombardo, e di Antonio Labriola, nato a Cassino, fra i quali non si può certo stabilire una graduatoria di merito e di valore, ma certamente una radicale differenza di «mentalità», per essere stato il primo un politico concreto e pragmatico e un brillante utopista il secondo. Possiamo chiederci ora se all'Italia di oggi possa servire di più un tipo d'uomo come il primo o uno come il secondo. I problemi di un grande sistema complesso e disomogeneo, come quello dell'Italia moderna industrializzate, non possono essere affrontati né con l'intelligenza esasperata dall'Utopia, e neppure con i residui imponenti di quella mentalità rurale, localistica, familistica, e anarcoide propria dell'epoca parafeudale, ancora presenti nel Sud. Il vero problema è questo. Il marciume sociale della delinquenza mafiosa, la carenza di solidarietà collettive, il clientelismo dilagante, l'antistatalismo viscerale nascono da un ■humus storico culturale che si è fatto del tutto anacronistico, come da quasi cento anni sostengono i grandi meridionalisti inascoltati. E' vero che esso non è esclusivo del Meridione d'Italia, né che vi è egualmente diffuso in tutte le sue zone, e che ve ne sono tracce anche altrove. Ma in nessuna parte d'Italia esso vi è altrettanto massicciamente presente. Questo sottofondo culturale, che agisce negativamente in tutti i settori della vita nazionale, non è uno stato «naturale», ma un prodotto della storia, per liberarsi dal quale è necessaria un'azione di autoanalisi spietata delle vicende di queQa storia medesima, che lo porti alla superficie, lo metta bene in luce. Il rimuoverlo e soffocarlo non serve a ridurne le conseguenze distruttive, ma a esasperarle. Carlo Tullio Altan

Persone citate: Antonio Labriola, Filippo Turati, Gramsci, Racioppi, Salvemini, Sylos Labini, Villari