Malamud: l'eros è nei boschi lontano da New York di Claudio Gorlier

Malamud: l'eros è nei boschi lontano da New York L'ultimo romanzo dello scrittore americano Malamud: l'eros è nei boschi lontano da New York Sta per uscire da Einaudi l'ultimo romanzo di Bernard Malamud «Le «ite di Dubin» (Supercoralll, 409 pagine, 15 mila lire). Lo presentiamo con un articolo di Claudio Gorller e alcune pagine In anteprima per gentile concessione dell'editore. PUÒ' davvero capitare, stando all'ultima formula di Genette, l'ir pertestualità, che lo scrittore si avvìi a giocare — manipolandoli, rifacendoli, ironizzandoli — con modelli preesistenti..Un passo ancora, e magari tocca al personaggio di misurarsi con altri personaggi: così la sua vita, o le sue vite, si intrecceranno capricciosamente con quelle che sta tentando di ricostruire e di rispecchiare. £' il caso del protagonista dell'ultimo romanzo di Bernard Malamud, il biografo 'William Dubin, le cui metamorfosi esistenziali si misurano sulle vicende di Thoreau (oggetto di un suo libro) e di D. H. Lawrence (di cui sta scrivendo la biografia), senza contare l'ombra inquietante di Sant'Agostino, autore notoriamente dell'autobiografia suprema, del modello assoluto. Ecco spiegato il titolo ammiccante del romanzo, Le vite di Dubin. Per «aggiustare» il proprio Io tumefatto in un mondo di Io pericolanti, quale migliore terapia se non decifrare una serie di Io esemplari? Tutta la narrativa di Malamud è in effetti popolata di Io in riparazione; se mai, in Le vite di Dubin il feticcio viene dichiarato, esplicitato, con la sua brava iniziale maiuscola. Anzi, di Io ne saltano fuori da tutte le parti, comprendendo, oltre a William, la moglie, il figlio di primo letto di lei, disertore americano rifugiato in Svezia per evitare il Vietnam, la figlia studentessa a Berkeley, tentata da amori turbinosi e dalla pratica del buddismo zen, un compatto gruppo di amici. La consolidata equazione di Isaac Rosenfeld, che lo scrittore ebraico di estrazione ebraica si trovi in una situazione privilegiata nel rappresentare l'alienazione, sembra d'obbligo anche per Malamud, scontata la generalizzazione e l'etichettatura che ha provocato l'insofferenza di Bellow. Nell'arco che va dal Commesso a L'uomo di Kiev, ai racconti, a Le vite di Dubin, l'ebreo di Malamud si assume il carico tormentoso ma cosciente di interrogarsi sulla dislocazione dell'individuo alienato in una società che pare un terreno di coltura per una simile condizione. Il timbro caratteristico della narrativa di Malamud, che lo colloca all'opposto di un Mailer, sta nel rapporto simbiotico tra realtà e magia, tra urgenza dell'oggetto e strategia del sogno, tra esperienza quotidiana e commercio con la memoria, tra abbandono al flusso vitale e riflessione sottile, dussi esasperata, tra inclinazione al sentimento (o al sentimentalismo, che spiega forse il successo dei suoi libri assunti negli aspetti più immediati) e esercizio demoniaco della sofferenza. I suoi ebrei, come Dubin, non posseggono il marchio, etnico e culturale, dei confratelli che si incontrano in altri scrittori americani, da Bellow a Roth, Dunque, nel suo atteggiamento decisamente antinaturalistico, Malamud si riallaccia al romance, alla narrativa dai meccanismi che trascendono il reale, caricandosi di avventura, inseguendo la favola, respingendo la storia, o accettandone l'intrusione soltanto a scaglie. Di qui il suo linguaggio metaforico, la sua singolare lievitazione, il ricorso all'ironia, il rifugio pastorale in un'Arcadia consolante e insieme popolata di sussulti alle soglie dell'incubo, il rifiuto della vistosità drammatica e le ambigue epifanie, come nella conclusione di Le vite di Dubin. Va da sé che l'allusività simbolica la faccia da padrone, a cominciare dai nomi. Dubin sta, ci viene fatto capire, per il tedesco Du bist tu sei. Ma chi è Dubin? All'inizio, un nuovo Thoreau, sottrattosi all'angoscia della civiltà urbana (New York) ritirandosi a lavorare in campagna, ove passeggia precisamente come si legge in Walden, il capolavoro del proverbiale classico americano. Lawrence irrompe nella vita del quasi sessantenne Dubin scompigliando tutte le prospettive, costringendolo a una tarda scoperta della sessualità, da lui sublimata intellettualmente, per mezzo di Fanny, una ragazza che ha all'incirca l'età della figlia. La stesura della biografia si inceppa fino a quando la crisi sessuale, che lo rende superati ivo con Fanny e impotente con la moglie, trova una sia pur compromissoria via di sfogo, tale da consentirgli di sostenere la doppia parte, a lui che, biografo, con il doppio ha ormai ali- ■ mentalo una consuetudine insopprimibile. Potrà scrivere la biografia sentendosi ormai liberato del condizionamento del modello, del Lawrence teorico della pansessualità divenuto impotente a quarantun'anni, e non più contagiato dalla sua malattia. Che non si trasformerà, quindi, nella malattia di Portnoy di Roth, alla quale verrebbe spontaneo accostarla, in virtù dell'ostinato controllo razionale di Dubin. Come ha scritto un critico americano, per Malamud la conoscenza di sé equivale a conoscenza del mondo, e volere le cose giuste significa fare scelte reali, onde la ricerca della realtà è una funzione della ricerca di identità. Malamud persegue, dunque, una sistemazione etica dell'identità dei suoi personaggi, senza tentazioni metafisiche. E' lui a rammentarci che, se Dio leggesse Spinoza, «chiuderebbe bot¬ tega». Piuttosto, bisogna saper guidare il proprio mutamento costante sènza farsene sopraffare: per Malamud la sessualità aspira ad essere ciò che banalmente si usa chiamare amore (con una possibile spruzzata di Fromm), nel segno dell'accettazione, di uno scambio incessante tra passato e presente, dell'avventura racchiusa nel quotidiano. Le vite di Dubin, in soldoni, è la storia di una comune andropausa. Ovvero 10 sarebbe, se Dubin non fosse un intellettuale con tutte le carte in regola, e Malamud uno scrittore nutrito di letteratura. H romanzo, non meno di altri di Malamud, ripropone allora una serie ben riconoscibile di stereotipi, che includono 11 jamesiano pellegrinaggio in una Venezia deliberatamente di comodo, con tanto di gondolieri canori, un conflitto incrociato e speculare, così tipicamente americano, tra padri e figli (Fanny e William; il figliastro e William; la figlia Maud e William; Maud amante e resa incinta da un uomo che ha l'età del padre; Roger, che ama Fanny ed è coetaneo di Gerald, il figlio di William). In più, la tentazione simbolica. Fanny riconduce dichiaratamente a un personaggio della Austen e a una famosa.poesia di Keats; ma, con indiretta ironia, a Fanny Hill. Il misterioso gatto nero che si installa in casa Dubin si chiamerà Lorenzo, trasparente allusione a Lawrence, e finirà schiacciato dall'auto di Dubin, dopo avere a sua volta ucciso crudelmente un variopinto uccello della foresta amato da Dubin che in uno slancio partecipa torio gli grida: «Non morire mai!». Ma la realtà, spiega Malamud, ha un senso quando diviene rituale. Claudio Gorlier Bernard Malamud

Luoghi citati: Berkeley, Kiev, New York, Svezia, Vietnam