Il gioco è finito non si rìde più di Franco Lucentini

Il gioco è finito non si rìde più Parliamone Il gioco è finito non si rìde più NEI cataloghi degli editori anglosassoni manca di rado una sezione intitolata «humour», messa magari tra «classics» e «history», dove si trovano lunghi elenchi di titoli contemporanei a disposizione del lettore. Non sappiamo come sono quei libri, ma il fatto è che ci sono, e che c'è evidentemente un pubblico per comprarli. Mentre da noi il mercato della risata letteraria appare di anno in anno più ridotto, più avaro. Qualcuno dei nostri grossi editori ha tentato la via della collana umoristica, ottenendo successi sporadici e continue difficoltà di approvvigionamento. Il lamento è generale: non si trovano testi, non si trovano autori, l'umorismo in Italia «non va». Nessuno degli scrittori italiani «seri» si azzarderebbe mai (come non sdegnano invece di fare non pochi illustri stranieri) a cambiare ogni tanto cavallo, a cimentarsi con una narrazione dichiaratamente ilare, a impegnarsi nel divertimento puro. Può darsi che in pratica sia una fortuna per tutti (vengono i brividi a immaginare che cosa intenderebbero per «divertimento» certi — innominabili — colleghi), ma si tratta pur sempre di un segno negativo. Manca la versatilità, la disinvoltura, la spregiudicatezza, mancano la curiosità e il piacere del gioco. L'obiezione è: ma i critici ci darebbero addosso, i nostri lettori resterebbero sconcertati, non ci capirebbero. Giustissimo. Ma è la conferma che siamo un popolo di conservatori. Senza il peso di una vera industria culturale in grado di costringere o incitare minuziosamente l'autore a questa o quella predeterminata «confezione», liberissimi di scrivere e di leggere in ogni concepibile direzione, di sperimentare e gustare tutte le forme, tutti i generi, tutte le tonalità letterarie, restiamo nondimeno aggrappati a una rigida immobilità, del tipo di quella difesa nelle fabbriche dai sindacati: io non mi muovo di qui, non mi fido, non rischio- la mia reputazione. Non si può non pensare a ciò che avremmo perduto se un criterio analogo avesse prevalso in campo musicale, dove tutti passano (passavano) continuamente dall'opera buffa alla messa da requiem, dalla sinfonia allo «scherzo». Si dice che di questa paralisi sia causa la confusione dei tempi, lo stato di caos, di frammentazione faziosa, in cui si trova la società italiana: ma la gente di cinema ha sempre avuto di fronte le stesse difficoltà, e ha sempre trovato modo di produrre opere di buona, e talvolta alta, levatura comica. No. a scoraggiare l'umorismo scritto è piuttosto una tenace remora snobistica, tipica degli sprovveduti, degli incolti. A parole, tutti concedono che far ridere può anche essere più difficile che far piangere; che Cervantes, Ariosto, Gogol, Goldoni ecc. ecc.: che vergognosamente a Wodehouse, prosatore sommo, fu preferito per il Nobel il modesto Galsworthy. Ma poi. è inutile, il lettore comune o medio che si voglia dire torna sempre al suo vizio, che è di volersi sentire «serio» anche lui. Quando si ribella al «mattone», alla «pizza», lo fa in tono di sfida, o con aria di scusa. Ridere è una bella cosa, ma secondaria, «minore», rispetto alle gratificazioni che gli fornisce la lettura, sia pure stentata, di un romanzo profondo, pensoso, problematico, impegnato, istruttivo, «che dice qualcosa». Nove volte su dieci quel ualcosa» è mal detto, confuso, velleitario, banale o franante stupido. Ma il cappello uno non se lo toglie al l '3ggio dei carri di carnevale; se lo toglie al passaggio del carro funebre, anche se è vuoto. Carlo Frutterò Franco Lucentini

Persone citate: Ariosto, Carlo Frutterò, Cervantes, Galsworthy, Gogol, Goldoni

Luoghi citati: Italia