Davanti a Picasso, uguale e diverso

Davanti a Picasso, uguale e diverso A VENEZIA TRA IMMAGINI MOLTIPLICATE, SEGNI CONVULSI, TACCUINI " Davanti a Picasso, uguale e diverso VENEZIA — Picasso è un po' più vicino? Nella mostra dell'anno, tra i saloni di Palazzo Grassi, c'è l'attimo di respiro, per fortuna, la pausa sognata. E' nel momento in cui ti rendi conto che è finito il primo piano — piano di palazzo, non categoria dello spirito —; e che su per di là, per quella ripida scaletta di legno, al secondo piano... Insomma non ci potrà essere tanta roba ancora, lassù. Ti appoggi per un momento al fInestrone sul canale, stai a guardare le onde, le barche. Ci voleva; dalle antiche panche attraenti, ti scacciano inesorabili guardiani. Dopo tre ore di navigazione, eccoti al punto di partenza e sorridi. Vero che insistono i cartelli ammonitori: «La mostra prosegue al piano superiore»; ma c'è anche il conforto che qualcuno, vista la scaletta, data un'occhiata all'orologio, rinuncia: abbiamo già traversato dodici sale, affrontate duecentocinque opere, abbordati 287 fogli di taccuino. Tutto prosegue, certo, al piano superiore, e noi attacchiamo fiduciosi, uno dopo l'altro, i quaranta gradini di legno. L'arrivo lassù sembra darci ragione: la saletta a cui approdiamo è di dimensioni ridotte, quasi casalinghe; ma dai un'occhiata, vai un po' avanti, capisci presto che non ti basta il pomeriggio. Altre dodici sale, centotrenta opere. In totale, quota seicento e passa, fra quadri, disegni, schizzi, sculture. Peggio: proprio alla fine di questo piano casalingo, tra le ultime soglie dove speravi di riordinare le idee, ti vengono incontro la Sirena e la Dormiente, il Toro infuriato e la Stanza labirinto, i ritratti e gli autoritratti, e persino lui stesso, Picasso con la pipa, che mai ce lo eravamo trovata cosi vicino. Tutto tra continue svolte, trasformazioni, salti, cambi di marcia, metamorfosi a ogni quadro e a ogni foglio, con l'estrema libertà, la truculenza, la sorpresa, la tenerezza, la beffa, l'energia infaticabile del genio. _ A fatica conquistiamo uno di quegli sporti di pietra in vista di tetti e di colombi, a raccapezzarci un po', a riordinare le idee. Che cosa ci ha più colpito nel mare di segni che abbiamo appena attraversato, tra ondate successive, scossoni elettrici, sottili richiami, urti brutali? Per prima cosa proprio la Sirena, da cui siamo sfuggiti, ci sembra, giusto in tempo. Quell'enorme donna-pesce, in moto convulso entro chissà quali acque. La bocca quasi oscena, aperta e sfigurata, urla quello che un tempo sarebbe stato un canto ammaliato re, e ora chissà che barrito o cachinno. Cerchiamo il corpo, ma non troviamo che grosse ventole, triangoli. Immense manipinne-tenaglie. Siamo ancora sotto shock: ci perseguita l'esplosione distruttrice dell'antico mito, da oggi quel che ne restava è finito per sempre anche in noi. Consola l'immagine della donna nuda che dorme: tutt'al contrario della Sirena di prima, ci riposano accanto le più splendide curve, antiche come il sole; quell'ovale compatto che chiude il tenero corpo, le forme sconvolte ma morbide, il soffice chiaroscuro dell'aria e dell'anima, tutta la qualità magica del corpo femminile e dello' sguardo innamorato che lo rivela. Che se quel nudo comincia, chissà, a penetrarci, alt, ci piomba addosso la donna che sulla riva del mare si torce i capelli: divinità degli inferi, stavolta, con quelle braccia da minotauro,' strizza i capelli come serpi: e il corpo intero si torce e si spezza in una tragedia senza scampo. Tra sirene, erinni e belle dormienti, ecco la galleria dei ritratti. Quelli di Olga Koklova, anzitutto: il primo dalla dolce bellezza appena conosciuta, il collo pronto e sottile; il secondo distante, quasi scostante, tra ieratico e gessoso; il terzo che pare costruito solo dalla luce, il quarto dalla creta; un altro che la coglie a letto, nel giusto momento d'abbandono, con l'orsacchiotto in mano; un altro ancora in meditazione fuori dal tempo. E poi i teneri figli e le nature morte, le teste di donna e i ritratti di amici, quell'indimenticabile donna acrobata, tra oggetto e deforma¬ zione onirica, fino ai due uomini solitari che ci mettono alla porta: l'uno che medita e l'altro che fuma la pipa, accecati e pieni di sguardo, irretiti e liberi, che occupano tutto lo spazio, eppure capaci di dominare ogni altro spazio possibile: rimasti soli, si direbbe, e improvvisamente vicini, fino a confondersi tra loro e col maestro ormai vecchio e saggio — e un poco, ci illudiamo, anche con noi. Torniamo con lui fra i taccuini privati, i fogli di appunti, i disegni custoditi non so se dai figli o dalla nipote, certo poco conosciuti, e rivediamo tutti quei volti ora liberi e gioiosi, e ora fulminati dalla malinconia, quelle figure In cui rinasce continuamente la vita, quel gesti sempre in moto — quanti: quella capacità di moltiplicare con pochi segni l'Immagine umana —, e ci sembra di capire meglio: è sempre lui, nelle centinaia di fogli, uguale e diverso, uomo e donna, giovane e vecchio, talvolta addirittura nel più scoperto degli autoritratti; e si capisce che alcuni di questi fogli fossero destinati a restare segreti fino alla morte. E ora, dopo una mostra come questa, c'è ancora qualcosa da scoprire, o magari da dire su Picasso? Ci accorgiamo che è la stessa domanda che ci facevamo a Milano un po' di anni fa, a Parigi l'anno scorso; suppongo anche a New York, dove di Picasso ce n'erano poco meno di mille, In un'immensa mostra che tentava di raggruppare «quasi» tutti — ma non tutti—i suoi massimi capolavori. Si parla di 15.661 opere, senza contare le incisioni, le acquetinte, i linoleum, le litografie, i monotipi, le ceramiche: forse ora, dopo Venezia, è stato visto tutto ciò che conta... Ma dimentichiamo che questa è solo una scelta nella collezione privata della nipote; e chissà cos'altro c'è in famiglia, tra figli e pronipoti. Forse di mostre, ecco, sul maestro che ha segnato il secolo, per un pezzo non se ne faranno altre. E invece no, arriva da Parigi la notizia: alle Gallerie Berggruen si sta per esporre una serie di splendidi guazzi, seppie e disegni degli ultimi anni, tra il '65 e il '72. Ne abbiamo visto le riproduzioni: piene di vitalità di invenzione, di ironia come... Semplicemente come Picasso; che poco per volta, abbiamo l'impressione, ci avviamo a conoscere; ma chissà se ci basta la vita. Rassegne grandi e piccole, una dopo l'altra, forse senza fine, insieme lo distanziano e lo accostano a noi; ma proprio una mostra come questa di Venezia, che deriva direttamente da una collezione di famiglia, apre cassetti ben chiusi, svela appunti senza filtri, offre abbozzi mediti, sfoglia taccuini segreti, presenta capolavorigelosamente custoditi, ce lo fa conoscere finalmente un po' più dal di dentro, o almeno da vicino; lo scopriamo persino, se ci sforziamo di accostarci, con un'aria di casa. E anche i suoi richiami più difficili, i segni convulsi che sino a ieri ci stupivano, cominciano ad avvicinarsi e ad abitare in noi. Paolo Barbaro Venezia. Folla all'ingresso di Palazzo Grassi dove sono esposte le opere di Picasso-

Luoghi citati: Milano, New York, Parigi, Venezia