L'urlo di Orozco, pittore di fuoco di Francesco Vincitorio

L'urlo di Orozco, pittore di fuoco L'urlo di Orozco, pittore di fuoco Nella retrospettiva del famoso muralista, morto trentadue anni fa, le profonde radici italiane della sua arte Dal sogno rivoluzionario al fanatico moralismo «da Inquisizione» - Il pessimismo delle ultime opere SIENA — Una retrospettiva del famoso muralista messicano José Clemente Orozco fa tappa, fino al 14 giugno, nel Palazzo Comunale di Siena, dopo essere stata in diverse città europee. Sono trascorsi trentadue anni dalla morte e questa Sosta italiana, dopo Madrid, Leningrado, Vienna. Parigi, Berlino e Oxford, diventa una specie di omaggio a certe radici della sua arte. Nel 1932, durante un viaggio in Europa, gli affreschi di Giotto e di Piero della Francesca, della Sistina e della Villa dei Misteri, furono, infatti, per lui. l'incontro più atteso ed emozionante. Ma la radice italiana è forse ancor più lontana e profonda. Affonda nella giovinezza quando, ai primi del secolo, studente all'Accademia, si era infiammato ai racconti del dott. Atl, un patito di Michelangelo e fervente propugnatore del rivolgimento politico e artistico messicano, eh» aveva soggiornato a lungo in Italia ed era stato seguace di Enrico Ferri, in quegli anni leader dei nostri socialisti rivoluzionari. Nel decennio, per il Messico, magico e tragico, che va dal 1910 al 1920. Orozco fu molto vicino a questo personaggio, condividendone le speranze e poi la cocente delusione per gli esiti della rivoluzione. Più di Rivera e Siqueiros, - cioè gli altri due grandi muralisti messicani. Come scrisse, lapidariamente, nell'autobiografia, «tutto rimase uguale come prima*. Per reazione si rifugiò in una anarchica solitudine, violenta e sarcastica. Poi emigrò per sette anni negli Stati Uniti dove ebbe modo di mettersi in luce, forse influenzando Pollock : Infine, tornato in patria, approfittando di alcune committenze pubbliche, affrescò vari edifici. Sempre con intransigente, fanatico moralismo. Da Inquisizione, come ebbe a dire Rivera, ricordando la sua lontana origine spagnola. Nella mostra a Siena, naturalmente, di questa attività «da frescante* c'è soltanto qualche riproduzione e alcuni studi. Ma questo «pittore di fuoco*, detto da alcuni il «Gol/a messicano*, anche quando fu impegnato in questi cicli, non trascurò mai la pittura da cavalletto e la grafica, suo grande primo amore. Cosicché, per il visitatore, è possibile, egualmente, farsi un'idea della sua arte. Ci sono, ad esempio, due sale con acquarelli e disegni fatti tra il 1912 e il 1920, anno d'inizio della stagione muralista. Essi consentono di chiarire bene quella matrice espressionista che emerge in tutta la sua pittura. Scene popolari ma stilisticamente sapienti che mettono in luce come, oltre alla determinante influenza goyesca, evidentissima in un piccolo olio del 1920. egli seppe nutrirsi pure di altri apporti, specialmente dell'espressionismo tedesco. Innestando tutto ciò su quell'insegnamento di base che aveva assorbito da Posada, il padre effettivo dei muralisti messicani. Va ricordato che Orozco, da bambino, abitava vicino al laboratorio di questo grande incisore popolare e, come egli stesso racconta, tornando da scuola, si fermava ore e ore davanti al suo tavolo di lavoro. Tuttavia, questa è preistoria. Il vero Orozco è leggibile, soprattutto, nei dipinti e disegni degli Anni Venti e seguenti, esposti in buon numero in questa mostra. Opere che costituiscono una specie di prima idea o controcanto dei cicli di affreschi. Meno enfatici, più tesi, sempre una deS > nuncia violenta dei soprusi e delle nefandezze dei generali, dei demagoghi, dei magistrati corrotti, dell'alto clero del tempo. Un discorso che, a tutti i costi, vuol provocare orrore. Ma, come ha rilevato il Mumford, al tempo stesso, mira a suscitare la volontà attiva, necessaria ad eliminare quelle ignominie. Un'arte che il regista Eisenstein defini, giustamente, un «urlo sociale*. Come tale, pieno anche di squilibri e, spesso, di gusto discutibile: -quando cade, dirà il poeta Octavio Paz, cade duramente, cade da grandi altezze*. Eppure con un fascino prepotente, una tensione che prende allo stomaco e fa male. Poi. man mano, col passare degli anni, sempre più amaro, più pessi¬ mista, come testimoniano le ultime opere. Fra quelle esposte, una in particolare: del 1948, cioè un anno prima della morte. Un «paesaggio metafisico*, quasi un quadro informale, grigio, con una finestra nera nel mezzo. Un vuoto orrendo che cola catrame e che ricorda il Goya, tetramente misantropo, della Quinta del Sordo. Fu proprio questo terribile scetticismo che Siqueiros rifiutò. Elogiando, però, lealmente, la sua grande forza di pittore, l'indomito spirito di ribellione, «la potenzialità plastica senza pari nel mondo contemporaneo*. Pur con i limiti cui si è accennato, certamente, uno dei protagonisti dell'arte del XX secolo. Francesco Vincitorio