Bonn, il miracolo è finito di Mario Pirani

Bonn, il miracolo è finito CANCELLIERE E SINDACATI DI FRONTE ALLA RECESSIONE IN ATTO Bonn, il miracolo è finito Rincaro del petrolio, calo delle esportazioni e aumento dei disoccupati fanno parlare di una «malattia tedesca» Per Schmidt è un momento diffìcile: la pace sociale è stata mantenuta, ma gli investimenti e la produttività sono crollati - L'economista Gruhler commenta: «Keynes è morto anche se la sinistra non se ne accorge» DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE FRANCOFORTE — .La Repubblica federale è obbligata ad assuefarsi all'idea di dover accettare un peggioramento del tenore di vita a causa del sensibile aumento del prezzo del petrolio e riconoscere che non esiste alcuna possibilità di poterlo compensare mediante un semplice aumento dei redditi reali». Così termina l'introduzione dell'ultima relazione della Banca centrale tedesca. Ma non è solo il petrolio a rendere improvvisamente fragile un'economia, pur sempre fortissima, ma che fino a ieri sembrava esente dai mali che travagliano gli altri Paesi europei. «Si odono — scrive la "Frankfurter Allgemeine Zeitung" — affermazioni relative ad una nuova malattia tedesca. Circola la voce che la Germania non è più quella di una volta. Si delineano tre questioni chiave: vengono meno l'abilità, e la diligenza dei tedeschi? Ci si può ancora fidare di loro? E, infine, il loro Cancelliere è ancora in grado di tenere con efficacia la direzione del Paese?». Il dato economico negativo, che altrove può suscitare analisi tecniche o lotte sindacali per non pagarne i costi, qui è vissuto come angoscia esistenziale collettiva. Evoca, mi dice un giovane economista, Gerard Milller, del centro studi della Dgb (la potente centrale sindacale unitaria), non più soltanto il permanente ricordo dell'inflazione al 1000% del '23 ma la grande recessione con 5-6 milioni di disoccupati del 1932, quando il cancelliere cattolico Bruning instaurò una politica catastrofica di austerità. Poi venne Hitler, la disoccupazione scomparve grazie alla creazione dell'Arbeitsdienst, l'Esercito del lavoro, e alla trasformazione dell'apparato industriale con prospettive belliche. Per questo la fine della piena occupazione e di un'economia di benessere diffuso, di reddito aggiuntivo da distribuire, è vissuta nevroticamente come una voragine dentro cui possono precipitare le certezze di vita attribuite giustamente, non solo dalla classe operaia (scesa dal 51,5 al 352% del totale degli occupati) ma dai nuovi ceti medi (saliti dal 20,6 al 45,1%), alla saggia ed efficiente conduzione politica ed economica del cancelliere Schmidt e della socialdemocrazia, vera erede del Welfare State, creato da Otto von Bismarck negli anni tra il 1883 e il 1889. Ma oggi i margini di questa politica appaiono per la prima volta, dopo la rinascita del dopoguerra, seriamente in pericolo. L'orgoglioso « Wir sind wieder wer» (osiamo di nuovo qualcuno») si spegne sulle labbra proprio di quei nuovi ceti medi, le *Dienstellungs Klassen-, così definite dal sociologo liberale Dahrendorf, formate da gruppi eterogenei in crescita (tecnici, funzionari, professionisti, insegnanti, manager piccoli e medi) che, come osserva in un acuto studio sul Mulino Afono Caciagli, hanno scelto Schmidt sulla base di un 'Voto d'interesse» legato alla porzione di benessere che lo sviluppo impetuoso dell'economia loro affidava e alla quota crescente di Welfare State su di loro confluita. Una condizione anche questa messa in forse dall'allarme per l'abnorme crescita della spesa pubblica, che la recessione ha aggravato con una diminuzione delle entrate tributarie: il deficit dei Lànder e dei comuni, previsto per 57 miliardi di marchi, varcherà la soglia dei 60 e quello del governo centrale passerà da 27 a 34 miliardi. Mentre le prospettive di crescita del prodotto nazionale, che si pensava si sarebbero attestate a quota zero, scenderanno, invece, a menol. Nel grande palazzo di vetro della Confindustria tedesca sulle rive del Reno, a Colonia, il linguaggio è preoccupato e teso, forse più del necessario. Si sente, comunque, che la pace sociale, l'azione concertata tra governo-industria e sindacato non è più sufficiente a garantire una crescita regolare. L'economista Wolfram Grùhler, una delle teste d'uovo dell'Institut der deutschen Wirtschaft, appendice culturale dello stato maggiore industriale, mi dice senza mezzi termini: «Keynes è morto anche se la sinistra per motivi ideologici non se ne vuole accorgere. I nostri sindacati, pur meglio degli altri, hanno sempre l'idea che bisogna redistribuire i profitti. Cosi i metalmeccanici strappano circa il 5,2%, un aumento assolutamente troppo alto quando la produttività cresce solo dell'1,5 (ma l'inflazione è al 5,6!). Non aver tenuto bassi i salari è un errore perché scoraggerà gli Investimenti. La ragione non ha riportato la vittoria: del resto una politica economica razionale non si può applica- re in un regime democratico». La sinistra profezia è corredata da una serie di dati. «Il deficit delle partite correnti (bilancia commerciale + servizi-trasferimenti all'estero degli emigranti, ecc.), in attivo fino al '69, è oggi 11 più alto del mondo con un buco di 28 miliardi di marchi. Di questi, ben 26 rappresentano le spese dei turisti tedeschi all'estero. La fattura petrolifera sfiora i 70 miliardi ed ogni pfenning in più ci costa 35 milioni di marchi (un marco vale circa 500 lire). Abbiamo nel passato fatto fronte a queste uscite con la nostra capacità esportatrice (tra il 27 e il 28% del prodotto nazionale) ma anche questa è ormai in forse. Per la prima volta nella storia recente la nostra bilancia commerciale comincia ad accusare perdite (—123 milioni l'ultimo mese). La causa è facile da individuare: la produttività per ora lavorata è caduta da una crescita del 4,6 nel '74 a zero quest'anno, il costo del lavoro è il più alto dei Paesi industriali (un'ora lavorata costa da noi 30,40 marchi, in Italia 17,5, negli Usa 18, in Francia 17,35, in Giappone 12). Tutto questo ha portato ad una caduta dei profitti e degli investimenti». C'è" una via d'uscita? «SI, tenere i costi bassi, tornare ad investire, spendere molto nella ricerca e nella innovazione perché oggi i giapponesi non copiano più, come un tempo, ma stanno prendendo la leadership anche nei nuovi prodotti». E questo significherà una ripresa dell'occupazione (oggi i disoccupati sono 1.150.000)? «La disoccupazione — risponde implacabile — ci accompagnerà per un buon numero d'anni e, anzi, aumenterà con l'apporto delle nuove leve nate negli anni del miracolo, i decenni '50 e '60. Ciò vuol dire che un milione di giovani si presenterà sul mercato del lavoro durante l'intero decennio degli Anni 80, al di là del ritmo attuale. Questo accrescerà le difficoltà, i problemi si aggraveranno e non si risolveranno certo In modo elegante». Sono in grado i sindacati tedeschi, Schmidt, la socialdemocrazia di raccogliere una sfida che tocca le radici stesse del loro successo politico fino ad oggi? Mario Pirani Helmut Schmidt visto da Levine Copyright N.Y. Review of Books. Opera Mundi e per l'Italia -La Stampa»)

Luoghi citati: Bonn, Colonia, Francia, Francoforte, Germania, Giappone, Italia, Usa