Canta la vivandiera di Donizetti di Massimo Mila

Canta la vivandiera di Donizetti Canta la vivandiera di Donizetti L'opera, scritta nel 1840, si affermò subito come capolavoro deir«opéra-comique» - Una storia alla Kipling - Il meraviglioso uso dell'orchestra da parte del compositore giunto alla maturità - Protagonista Luciana Serra TORINO - Scritta quasi per scommessa a Parigi nel 1840, La fille du régiment si affermò subito come un capolavoro deWopéra-comique; l'aggiunta dei recitativi per la versione italiana non l'appesantì, ma solo allungò un poco il primo dei due atti. Nella sua tenue inconsistenza il libretto di Saint-Georges e Bayard conteneva un nocciolo d'interesse teatrale che Donizetti non si lasciò sfuggire, ed è la figura della ragazza adottata da un reggimento e in esso cresciuta come vivandiera, che avendo ritrovato madre e casa avita non può adattarsi ai salamelecchi della gente bene. E' un tema, se si vuole, alla Kipling avanti lettera: l'esercito è la libera natura, e il castello signorile è la società, e Maria la vivandiera è Mowgli, il ragazzo cresciuto dai lupi nella giungla e inadattabile all'ipocrisia del vivere sociale. C'è un residuo di ecologismo alla Rousseau, nella cui polemica anti-aristocratica si mesce un velo di sentimenti nostalgici, tipico della Francia di Luigi Filippo che, «annoiandosi» in attesa del '48, si baloccava stendhalianamente con le memorie napoleoniche. Sempre in bilico tra marcette schubertiane e rataplan alla Rossini, la musica di Donizetti si getta in quell'unica proposta teatrale del soggetto che è il contrasto tra caserma e castello. Vecchia Guardia e aristocrazia. Nel second'atto questo contrasto si manifesta in una specie di manifesto estetico con la scena della lezione di musica, quando quella cavallona di Maria, nel castello avito, è costretta a studiare una sospirosa romanza settecentesca e di continuo la deforma scandalosamente, sopraffatta dal ricordo delle gagliarde canzoni soldatesche. La costernazione della Marchesa e l'entusiasmo del sergente Sulpizio delimitano gli estremi d'una bonaria polemica tra l'orgogliosa ars nova del melodramma ottocentesco, di cui Rossini sarebbe il Guillaume de Machault, e la settecentesca ars antiqua i cui Léonin e Pérotin si potrebbero individuare in Paisiello e Cimarosa. Ciò s'inserisce in una ricca tradizione di contese musicali tra l'arte d'oggi e l'arte di ieii, di cui è capostipite l'analoga scena della lezione di musica nel Barbiere con la nostalgica esibizione di don Bartolo: «La musica ai miei tempi era altra cosa-i. «Convien partir» La partitura si esaurisce di fatto in una riserva di musichette marziali, da soldatini di piombo, un terzetto d'irresistibile dinamismo vocale, e poche romanze sentimentali tra le quali s'incastona una gemma: «Convien partir», il cauto della malinconia di Maria la vivandiera, quando l'inopinato ritrovamento della sua nobile famiglia la costringe ad abbandonare la libera vita militare. Insieme con «Una furtiva lacrima», con «Spirto gentil» e con lo sbigottimento del vecchio Don Pasquale deluso e beffato, è una delle più alte espressioni del patetico donizettiano e ha di suo una signorile evasività melodica, un giro sfumato e imprevedibile d'intervalli che la mette al riparo dal logorìo di maldestre imitazioni. E poi c'è l'orchestra, la meravigliosa orchestra di Donizetti nella sua maturità. All'insulsaggine del libretto e alla leggerezza d'una tematica brillante che sfiora la superficialità dell'operetta, poco o nulla si bada, perché sotto quelle parole sciocche, sotto quelle fanfarette da soldatini di piombo agisce persuasivo come un narcotico, sempre nuovo e sempre nobile, l'inesaurìbile discorso intessuto dalla successione ingegnosa dei timbri: interloquendo a turno nella magra essenzialità degli archi, ed evocando a ragion veduta l'occasionale intervento degli ottoni, flauti, oboi, clarinetti, fagotti e corni hanno tutta una loro storia interminabile da dipanare. E' nelle opere della maturità di Donizetti che bisognerebbe cercare la poesia della decantata «Klangfarbe», più e prima che nell'opulenza strumentale, da nuovi ricchi, dei poemi sinfonici di Strauss o nella laboriosa alchimia dei Cinque pezzi di Schoenberg. Briciole di vita La perfezione strumentale non va mai a detrimento delle voci, che restano protagoniste in uno stile aggiornato di belcanto, del quale Luciana Serra si è riconfermata maestra, ritrovando intera l'ammirazione destata l'anno scorso con La Sonnambula. Si blatera sempre della crisi delle voci. Ecco una cantante di cui i giovani del giorno d'oggi, quando saranno diventati anche loro dei vecchi noiosi, diranno, crollando il capo: «Eh sì! ma voi non avete sentito Luciana Serra!» Ottima spalla le è stato Vladimiro Ganzarolli, nella parte di Sulpizio, «sergente (di buon cuore)», come suona la locandina originale dei personaggi. Tonio, «giovine svizzero (semplice al primo atto, educato e nobile al secondo)» è il tenore Ernesto Palacio: ha voce un po' stretta e non troppo gradevole, ma ha intelligenza scenica e musicalità, e guidato egregiamente dalla regìa di Crivelli (uno specialista di quest'opera che ne è venuto sempre più af¬ finando e arricchendo l'interpretazione) compone uno spassoso tipo di tonto alla Macario. Anche Rosa Laghezza, nella caricata parte della marchesa di Berckenfield, zia o piuttosto madre segreta della vivandiera, e Alfredo Mariotti, bene in voce come maggiordomo Ortensio, e tutti i comprimari fino a Angelo Nosotti, Lidia Gastaldi, Eugenio Prando, Mario Favaloro, Carlo Ubertone, e il coro stesso, istruito da Ferruccio Lozer, risentono la benefica influenza dell'affabile, lubrificante regìa di Filippo Crivelli e della direzione attenta, e sensibile alle venature liriche dell'opera, di Bruno Martinetti. Le scene, montate con la consueta perizia da Aulo Brasatila, sono quelle celebri di Franco Zellìrelli: due deliziose «images d'Epinal» per i paesaggi svizzeri del primo atto, e un caricaturale salotto nobile per il secondo. Di Zeffirelli anche i vivacissimi costumi. Un bello e refrigerante spettacolo per la conclusione della stagione lirica. I soliti intellettuali pensosi troveranno che è superficiale: figurarsi! non c'è nessuna traccia di crisi della civiltà, di tramonto dell'Occidente, di tragedia dell'incomunicabilità e di dolore cosmico. Ma ci sono alcune briciole di vita, che valgono molto di più. Massimo Mila

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