Belgrado, occhi russi sull 'economia di Frane Barbieri

Belgrado, occhi russi sull 'economia MENTRE DA IERI KRAIGHER E* IL TERZO PRESIDENTE DOPO TITO Belgrado, occhi russi sull 'economia II meccanismo ideato da Tito per la sua successione funziona - Ma intanto l'inflazione frena lo sviluppo e minaccia conseguenze complesse - Mosca ha congelato i rapporti politici con la Jugoslavia, intensificando però quelli commerciali Rischia di essere una grossa ipoteca economica, psicologica e politica: un pericolo di cui la Cee sembra non tener conto DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE BELGRADO — La Jugoslavia ha da ieri il suo terso presidente dopo Tito. Per il macedone Kolisevski, cui nel momento del trapasso spettò la carica in quanto vicepresidente, il mandato era durato soltanto dieci giorni. Un anno fa venne nominato il bosniaco Cvijetin Mijatovic. Questi ora passa la mano a Sergej Kraigher. rappresentante della Slovenia nella presidensa collegiale. I turni previsti dalla regola della cosiddetta rotazione annua fra gli otto componenti del massimo organo federale vengono puntualmente osservati, non badando alle eventuali situazioni di eccezionalità (come potevano essere appun to la morte di Tito, la tensione internazionale o l'attuale crisi del Kosovo). Si evita di creare dei precedenti che possano fare dell'emergenza una regola. Così pure al vertice della Lega dei comunisti si sono già avvicendati due presidenti. Doronjski e Mojsov. rispettivamente esponenti della Vojvodina e della Macedonia. Fra gualche giorno scadrà il mandato anche del segretario della presidenza del partiio Dragosavac. Il rappresentante croato darà le consegne a un montenegrino. Culafic. Il marchingegno ideato da Tito non sembra aver creato eccessivi intoppi nel funzionamento del vertice, anche perchè i presidenti sono chiamati a coordinare il lavoro collegiale della presidenza sema godere di poteri superiori. Gestiscono la ricerca del consenso fra i membri a pari diritto (che sono otto nella presidenza dello Stato e 23 in quella del partito). A volte la ricerca si è rivelata faticosa, dovendo mettere d'accordo gli interessi e le esigenze delle distinte repubbliche e regioni. Tuttavia viene considerato superiore il vantaggio assicurato dal meccanismo pluralistico che è quello della garanzia dei diritti delle singole componenti della federazione e della prevenzione di ogni ambizione personalìstica, unitaristica o autoritaria. La verità Anche se il collaudo del complesso congegno ha registrato dei ritardi (si tratta per certi versi di far funzionare una specie di federazione svizzera nel cuore dei Balcani), le difficoltà per il governo e il partito non sono state prevalentemente di carattere politico. Non si sono registrate tentazioni di sovvertire il sistema «semplificandolo» come da più parti ci si aspettava. Le vere difficoltà sono però venute dall'eco- nomia. Ed erano tali da avere serie implicazioni politiche. L'inflazione non è nuova nell'economia jugoslava. Si registra ormai da dieci anni, da quando cioè è stata messa in moto, a tutti gli effetti, un'economia di mercato e un concetto consumistico di sviluppo. L'inflazione era considerata come una caratteristica normale di un tale tipo di economia, per certi versi un sìntoìno della sua espansione (al contrario che nella fenomenologia delle economie chiuse dell'Est, dove l'inflazione occulta denuncia la stagnazione). Negli ultimi anni però l'inflazione ha sfondato il limite della normalità: sfiorando il 50 per cento, mette in pericolo lo stesso sviluppo economico. L'euforia dei consumi e degli investimenti ha portato l'indebitamento a quasi 20 miliardi di dollari mentre più del 40 per cento del reddito nazionale viene bloccato negli investimenti, in buona parte improduttivi o lontani dati'incominciare a rendere. Se il fenomeno non è nuovo e non dipende solo dalla gestione del dopo Tito, è nuovo il modo con cui viene affrontato. Con estrema spregiudicatezza, diremmo quasi con durezza, il governo ha ultimamente svelato la verità sulla crisi. Come dichiara un alto funzionario: «Non è possibile promuovere soluzioni radicali senza affrontare tutta la verità. Si è finalmente compreso che è impossibile realizzare le ambizioni al di là delle nostre possibilità oggettive e ancora meno facendo conto sugli altri». La verità sullo stato dell'economia non sembra aver scosso né sorpreso grancìié gli jugoslavi. Erano in buona misura preparati a una certa responsabile rinuncia nel delicato periodo del dopo Tito. Erano per certi versi anche coscienti di aver speso e consumato per vari anni più di quanto producevano. Un «miracolo* che si sapeva non poter durare in eterno. E' avvenuto così che anclte una certa penuria degli approvvigionamenti, la mancanza nei negozi di prodotti di uso corrente, non ha causato contraccolpi più. gravi fra la popolazione. Anche quando, per riempire i negozi, è stato concesso l'aumento dei prezzi, il malcontento è stato contenuto. Lo si spiega, olire che con un senso civile per la gravità del momento, anche con il fatto die ogni jugoslavo arrotonda lo stipendio con un altro 60 per cento guadagnato in varie attività sussidiarie. Nella direzione politica è stata così in un prono momento formulata una diagnosi alquanto paradossale: «La situazione economica è grave, ma la situazione politica è buona... La diagnosi è stata però ben presto contestata dagli stessi politici. Si è detto che innanzitutto era antimarxista, poi che potrebbe rappresentare una pericolosa autoillusione. E' stato asserito inoltre che gli ammortizzatori del lavoro sussidiario, se calmano i consumatori, diminuiscono comunque l'interesse e l'effi- cienza dei produttori sul vero posto di lavoro. Scriveva un economista: «Il livello di vita dev'essere garantito alle fonti del posto di lavoro. Se no il cerchio si chiude con dei danni per il sistema: crollo della produttività e della concorrenzialità». Infatti, il tasso di crescita registra ultimamente un calo del 3 per cento. La diagnosi della direzione politica viene su queste basi modificata: «La situazione economica fa aggravare la situazione politica». Per la prima volta in 25 anni, infatti, gli jugoslavi si sono scontrati con un crollo dello standard. Per la prima volta hanno registrato la mancanza di certi prodotti. Le giovani generazioni socialiste non conoscevano le file davanti ai magazzini. Ora hanno scoperto anche questo fenomeno, tipico degli altri Paesi socialisti. Lo choc, da consumistico, poteva diventare politico-morale. In tempi relativamente brevi, il governo l'ha intuito e ha provveduto a prevenirne le conseguenze più gravi. Ha applicato misure consone a un'economia di mercato, anche se pianificata, non ricorrendo a quelle delle economie statizzate e dirigistiche. Si è potuto constatare che l'aumento dei prezzi turba meno la gente che l'immagine dei negozi svuotati. C'è, a questo proposito, un dato indicativo. Per ragioni sindacali o autogestionali in Jugoslavia è ricorrente il fenomeno degli scioperi (garantiti dalla legge), però'la crisi economica e il calo degli approvvigionamenti non ha tuttavia aumentato il loro numero. Anzi, si registra una certa diminuzione in confronto ai 1200 che si sono avuti l'anno scorso. Fra autogestore e consumatore, nei momenti gravi, sembra prevalere la responsabilità del primo. Rimane comunque in piedi un problema di fondo: come uscire dalla crisi? Per la via dell'assistenzialismo che comporta anche il dirigismo statale o ricorrendo a una più sciolta dialettica economica? Non si tratta di scelte puramente tecniche. Nel caso jugoslavo si tratta della natura stessa del sistema: la crisi economica mette in ballo l'alternativa politica titoista. Il capo del governo della Serbia, Stambolic. ha centrato il problema in un dibattito al comitato centrale: «Esistono ancora illusioni che dalle difficoltà economiche si possa uscire appoggiandosi all'imposizione statale, che lo sviluppo materiale divenga in questa maniera più sicuro e la ripartizione più giusta. Queste illusioni, come ci insegna l'esperienza, aumenteranno se non risolveremo le difficoltà economiche e sociali tramite l'autogestione». La crisi economica aveva causato già qualche involuzione in questo campo. Molti economisti e politici asseriscono pure che l'involuzione sta alle radici della crisi stessa. Cioè: lo stato dell'autogestione e l'andamento della riforma in Jugoslavia si è misurato sempre da quanto del reddito globale rimaneva a libera disposizione delle imprese e di quanto se ne appropriava lo Stato. La misura ideale della ripartizione nazionale era stabilita nel 70 per cento alle imprese e nel 30 per cento allo Stato. L'obiettivo ideale non è stato mai raggiunto. Nei momenti di punta deiriformismo le imprese arrivavano a disporre del 60 per cento, però il rapporto tendeva quasi sempre a capovolgersi. In questo momento appare infatti fortemente capovolto: la sorte di due terzi del reddito viene determinata dalle «sovrastrutture- statali e bancarie, mentre soltanto un terzo del reddito rimane a disposizione di chi lo ha prodotto. Chi decide Schiacciata dall'intervento statale, l'economia è «rimasta senza ossigeno», il che comporta la «restrizione dell'autogestione», la quale si basa essenzialmente sull'autonomia, anzitutto materiale, dell'impresa. La massima del sistema jugoslavo era: i produttori, le aziende, e non lo Stato devono decidere sull'impiego dei capitali, sulla cosiddetta riproduzione allargata (nuovi investùnenti), coglierne i frutti e soffrirne i tracolli. Si constata che è tuttora lo Stato a predominare. Da un lato perché le forze dominanti soffrono ancora del morbo statalizzante e totalizzante, immanente ai sistejni socialisti, dall'altro perché le imprese inefficienti rivendicano da sole la protezione dello Stato quando navigano in cattive acque, ridando cosi nuovi impulsi al dirigismo centrale. Il paternalismo invadente dello Stalo e del partito è stato denunciato dal sociologo Jovanov sulla rivista teorica della Lega dei comunisti Socijalizam. Oltre alla chiave di ripartizione inadeguata, denunciai^ la proliferazione delle norme e delle istituzioni che sovrintendono alla base autogestionaria. «Se gli autogestori si attenessero a tutte queste norme e si sottoponessero a tutte queste istituzioni intermedie (falsamente presentate come scaturite dalla base autogestionaria) allora non ci sarebbe spazio per l'autogestione vera e propria e tutto si ridurrebbe al movimento programmato di tanti robots». Un impulso Secondo Jovanov si tratta del pericolo di un nuovo tipo di burocratizzazione, che sarebbe «il problema più complesso dello Stato nella società jugoslava». Questa tesi tanto radicate ha provocato molte contestazioni e approvazioni. Dalle discussioni al vertice sugli orientamenti da adottare di fronte alla crisi è prevalsa un'altra volta una linea, espressa così da Grlickov. membro della presidenza: «Nei momenti critici abbiamo cercato sempre la via d'uscita portando avanti la nostra alternativa. Nel '48 abbiamo risposto: "le fabbriche agli operai". Nella crisi del '60 siamo ricorsi ad un approfondimento della riforma da cui è scaturito il sistema integrale dell'autogestione. Nel '70 la nostra risposta era: "tutto il reddito agli operai"». Nemmeno oggi si accenna a compiere un passo all'indietro. Si insiste che la stabilizzazione economica deve accompagnarsi a un nuovo impulso all'autogestione e al ripristino delle leggi economiche. Sul piano prettamente politico, nella ricerca delle soluzioni riemerge la magica parola «dialogo», nel partito e nella società. Si parte dall'assioma, che finora aveva anche distinto il titoismo. che il partito non può essere depositario escluswo della verità e che nel partito non può esistere una verità sola, quella sostenuta dagli organi dirigenti. Nella crisi economica si è riscontrato infine un aspetto internazionale alquanto preoccupante. Nel corso di quest'anno le esportazioni verso l'Occidente sono diminuite del 30 per cento, quelle verso il Terzo Mondo del 20 per cento, mentre allo stesso tempo sono aumentate quelle verso i Paesi dell'area solletica addirittura del 60 per cento. Le deduzioni puramente economiche sono queste: l'industria jugoslava non ha raggiunto gli standards concorrenziali delle economie sviluppate, non si è trovato il modo di mettere a profitto l'accordo preferenziale con la Cee, le esportazioni precipitano proprio laddove l'indebitamento aumenta. Le implicazioni politiche sono ancora più complesse. Mosca ha quasi congelato i rapporti politici con Belgrado mentre sta spingendo come non mai quelli economici. Arriva a comprare anche tutti i residui e depositi dei magazzini delle fabbriche jugoslave. Dato che non paga in valuta convertibile, ma tramite il clearing, t vantaggi per l'economia jugoslava sono relativi. Però l'ipoteca diventa grossa: economica, psicologica e infine politica. Non ci vuole molto per individuare una sottile strategia di Mosca a cui la Jugoslavia, avendo un'economia aperta e le imprese la necessità di vendere, non può rimediare altrimenti che con una strategia di sboccili alternativi. Che è quella di trovare la chiave dei mercati occidentali. Il governo ha varato in questi giorni una serie di misure a proposito, dopo l'allarme dato da una riunione di economisti e politici ad alto livello tenutasi a Zagabria. E' stato Minic. membro della presidenza, a indicare il pericolo in termini più che espliciti. Le uniche perplessità vengono dal fatto che ì ministri della Cee, ostinandosi nel mantenere le barriere i>erso la Jugoslavia anche dopo l'accordo, sembrano non accorgersi del pericolo, appunto europeo, insito nello squilibrio degli sbocchi economici del Paese di Tito. Frane Barbieri

Persone citate: Mijatovic, Minic, Sergej Kraigher, Stambolic