COSI' RIGONI STERN VISSE LA GUERRA ITALO-GRECA FINITA 40 ANNI FA

COSI' RIGONI STERN VISSE LA GUERRA ITALO-GRECA FINITA 40 ANNI FA COSI' RIGONI STERN VISSE LA GUERRA ITALO-GRECA FINITA 40 ANNI FA Bandiera nera al ponte di Perati Doveva essere una passeggiata in Grecia: divenne una tragedia - Pagarono per tutti i soldati al fronte - Siluramenti di generali, liti fra gerarchi mentre, laceri e affamati, i reparti trascinavano muli e sofferenze sotto la tormenta - Mussolini diceva a Ciano: «Questo freddo e questa neve vanno benissimo, così muoiono le mezze cartucce» - Dopo l'armistizio Nell'autunno del 1940 partimmo dalle valli del Trentino carichi come muli e lasciammo le montagne amiche sotto una pioggia che ci entrava fredda tra camicia e pelle e usciva calda dalle scarpe. Nei pressi di Trento, nell'attesa di salire sul treno, si cantava .Sul ponte di Bassano bandiera nera / l'è il lutto degli alpini che va alla guera...». E davvero fu una triste partenza per luoghi lontani al di là del mare. Così, all'improvviso e in pochi giorni, in quel novembre ci trovammo tra montagne desolate e ostili per tentare di arginare la giusta reazione dei soldati greci che difendevano la loro terra contro l'aggressione ideata negli uffici romani dell'Italia fascista. Agli alpini della Julia, ai fanti delle divisioni Venezia, Parma, Piemonte, Ferrara e Siena, ai bersaglieri della Centauro, ai granatieri del 3" reggimento e ai cavalleggerì del 2" avevano assicurato che sarebbe stata una passeggiata turistica che in breve tempo li avrebbe fatti arrivare ad Atene; che l'esercito greco non avrebbe reagito all'attacco italiano, che la Grecia sarebbe caduta come una pera matura perché Francesco Jacomoni di San Savino luogotenente del re a Tirana, il generale Visconti-Frasca comandante delle truppe in Albania e Mussolini, Ciano e Soddu a Roma erano sicuri che con poche truppe e con l'aiuto di una inesistente quinta colonna la cosa si sarebbe risolta in un lampo. Anzi, aveva detto il duce: «Per la responsabilità che mi assumo in questa faccenda vi dico di non preoccuparvi eccessivamente di quelle che possono essere le perdite». Ma la «faccenda» fu veramente una brutta guerra, non per causa dei soldati ma per chi da lontano voleva comandare. Dopo aver varcato i confini tra Albania e Grecia in quell'infausto 28 ottobre 1940, i reparti eseguirono l'ordine di «penetrare in profondità» per occupare in breve tempo il Pindo e l'Epiro. Nel buio le colonne si misero in cammino sotto una pioggia battente, calpestando nel fango che invischiava il passo mentre la Vojussa, il Kalamos e il Sarandaporos si gonfiavano di acque limacciose ad ostacolare l'avanzata. Si andò avanti cosi, per giorni, tra montagne coperte di nubi, per sentieri che cava- vano le scarpe, mangiando gallette inzuppate di pioggia, trascinando muli e sofferenze finché la faccenda che doveva essere una facile passeggiata in Grecia divenne una tragedia, e a pagare per tutti erano i soldati al fronte sui quali magari, a Roma, si scaricavano le colpe. Vennero giorni amari e durissimi: alla fase dell'offensiva che durò sino al 15 novembre succedette la fase del ripiegamento dal 16 novembre all'8 dicembre, e come l'esercito greco mobilitava le sue divisioni per ricacciare gli invasori in mare, lo Stato Maggiore italiano, tra dimissioni e siluramenti di generali e liti tra gerarchi, inviava reparti a macerarsi tra fango e neve; reparti che a fatica arrivavano alla spicciolata per via mare o per via aerea, privi di salmerie e di servizi, e che venivano inviati immediatamente in linea alle dipendenze di comandanti sconosciuti. Fu questa una condotta di guerra contraria a ogni ragione e una delle maggiori cause degli insuccessi di questa campagna. Se in un primo tempo erano mancati i ponti per passare i fiumi in piena, i rifornimenti alle colonne che marciavano nel fango, i collegamenti con i reparti accerchiati in un territorio difficilissimo, gli ospedali da campo per accogliere i feriti e gli ammalati, ora, nell'azione «difensiva», che va dal 9 dicembre all'8 marzo 1941, la situazione non è molto cambiata. Sulle alte quote delle montagne albanesi tra bufere di neve e temperature che molte volte scendono sotto i trenta gradi gli alpini e i fanti il riposo e la pace li trovano solo nella morte bianca perché rari sono i rifornimenti, inesistenti i ricoveri, difficilissimi i collegamenti. Tra la neve del Passo del Posthme sono in postazione le mitragliatrici senza munizioni e quando finalmente queste arrivano non si potranno sparare perché di calibro sbagliato. Non ci sono viveri, arrivano tre o quattro muli carichi di rotoli di reticolato e il colonnello Reteuna che comanda il 6" alpini darà l'ordine di uccidere i muli e distribuirli tra le compagnie che da giorni non vedono cibo. Sul Valamare il maggiore Peis, che comanda il Vestone ridotto a una compagnia di disperati, dopo i combattimenti sui monti Gramos, la ritirata nella valle del Devoli, la tormenta che strappa i ripari, non ha niente, assolutamente niente, da poter dare a loro; e per non morire di fame e di freddo gli alpini a piccoli gruppi, a turno, scendono nelle poverissime case dei montanari albanesi alla ricerca di pannocchie di granturco che su in linea mangeranno crudo. Ma anche nelle valli o verso il mare dove i greci forzano gli attacchi per occupare Valona la tragedia non ha diverso volto, in un paesaggio che ricorda il Carso. Laggiù, a difendere Valona, viene mandato in dicembre il 2" alpini della Cuneense appena sbarcato a Durazzo; il 1", invece, viene mandato più lontano, dalle parti del Tomori, dove i battaglioni del 5" sono ridotti a mezze compagnie. Cosi la divisione viene smembrata e le armi pesanti, le stazioni radio, gli ospedali da campo, le salmerie, le cucine, i magazzini seguiranno come potranno. Un colonnello Come fu triste quel Natale, e come amari i pochi pacchi che ci arrivavano da casa. Ricordo che chiedevo farina gialla per fare la polenta, e formaggio. E attorno al fuoco che accendevamo dietro un masso, tra la neve che continuava a cadere, si cercava di arrostire un pezzo di mulo, morto precipitando da una mulattiera. Il 25 dicembre, ad Atene, Metaxas scriveva nel suo diario personale: «Chissà come patiscono i miei poveri soldati»; a Roma, lo stesso giorno, Mussolini, nel caldo del suo studio a Palazzo Venezia, diceva a Ciano: «Questo freddo e questa neve vanno benissimo, cosi muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana Vennero ancora cambiati generali. Dopo Visconti-Prasca e Soddu ci prova Cavallero al quale il duce scrive: «... il popolo italiano attende con ansia che il vento cambi direzione Gli attacchi dei greci si facevano stanchi, da noi incominciò a cambiare qualcosa anche se la confusione regnava sovrana. A un reparto di alpini che era sceso dal Guri i Topit per un breve riposo le divise a brandelli vennero sostituite con pantaloni e stivaletti da cavalleria. Un giorno di febbraio venne anche il maggiore Boffa, camminava in testa al battaglione sciatori Monte Rosa e salendo la mulattiera del Putatit tra due pareti di neve masticava il toscano e improperi; due giorni dopo lo fecero rìdiscendere in fretta per andare a tappare un buco in un altro settore. Il colonnello Martinat con il suo solito buon passo di grande camminatore ispezionava le prime linee; la sua presenza confortava alpini e subalterni, e quando tornava giù al Devoli sapeva dire senza peli sulla lingua quello che aveva visto. L'offensiva Nel marzo del 1941 fallisce l'offensiva italiana che aveva come obiettivo Klisura. Mussolini assiste da un osservatorio delle retrovie; ma il Gotico, Monastero, Spadarit, Ciafa Lusit, Scìndeli, Trebescines divennero nomi tristemente noti per alpini, fanti e bersaglieri che fecero, come dice la canzone, rosse di sangue le acque della Vojussa. Il 6 aprile, di domenica, le trupp" dell'Asse si mossero contro la Jugoslavia e i Balcani avvamparono nella guerra. La Tracia e la Macedonia vengono invase dall'Armata del generale List; il corpo di spedizione britannico che era sbarcato in Grecia incomincia a reimbarcarsi per ritornare alle basi di partenza. Il 13 aprile del 1941 era Pasqua e stavo cucinando la polenta nella gavetta con la farina che mi avevano mandato da casa. Venne un sottotenente dal comando a dirci di fare lo zaino perché si sarebbe partiti immediatamen¬ te: le nostre pattuglie avevano assicurato che i greci avevano abbandonato le trincee. Incominciava l'avanzata. Rovesciai la polenta non ancora cotta dentro l'elmetto e tenendolo davanti al petto camminai allo scoperto mangiando con le mani. Era strano camminare così liberamente e non sentire il flofflof delle bombe di mortaio. Camminammo in avanti per dieci giorni, con pioggia, con fango, con caldo, combattendo contro le retroguardie dell'esercito greco e affrontando il fuoco delle batterie che tentavano di frenare la marcia. L'armistizio venne firmato il giorno ventitré alle 14,45 e noi ci ritrovammo a Leskovika che avevamo occupato combattendo il giorno prima. Ora non è più necessario mascherare le tende, si possono montare all'aperto, e accendere fuochi. In un accampamento ci ritroviamo in tanti compaesani, ex compagni di scuola, di giochi, di gare di sci; qualcuno nei magazzini abbandonati dai greci ha trovato rakia e anice (io avevo solo trovato olive nere in salamoia); si beve e si canta perché la guerra è finita e noi siamo ancora vivi. Ma anche nubi di tristezza ogni tanto portano il silenzio perché quando si chiede di altri amici che non vediamo con noi si sente rispondere sottovoce: «E' morto». Forse in un'ora come questa, in quella sera di quarantanni fa, sotto una tenda, sono nate le parole: «Sul ponte di Perati bandiera nera... Sui monti della Grecia sono restati». Mario Rigoni Stern