La principessa smarrita di Oreste Del Buono

La principessa smarrita LE IRRESISTIBILI FIABE DEL RABBINO NACHMAN La principessa smarrita «C'era una volta un re che aveva sei figli e una figlia. Questa figlia gli era molto cara, la amava moltissimo e moltissimo se ne dilettava. Una volta, mentre stavano insieme, si adirò con lei e gli sfuggì di bocca la frase: Possa prenderti il non bene. La sera la principessa andò nella sua stanza e al mattino non si sapeva più dove fosse. Il padre era disperato e l'andava cercando in ogni dove. Vedendo quanto era grande il dolore del re il viceré si levò, chiese che gli venissero dati un servo, un cavallo e del denaro per mettersi in viaggio, e partì alla sua ricerca...». Così comincia la prima delle tredici storie, le ultime tredici fiabe, narrate da Nachman di Breslav negli ultimi anni della sua vita e trascritte in ebraico e jiddish dal discepolo Nathan di Nemirov sotto il titolo Sippurè maasijot. Tradotto letteralmente, suonerebbe in italiano: Racconti di eventi, ma i curatori di questa recentissima, ennesima gemma della Biblioteca Adelphi, Giacoma Limentani e Shalom Bahbout, hanno preferito intitolare più suggestivamente la raccolta La principessa smarrita, dall'episodio che inauguralmente si offre alla lettura subito affascinata e turbata insieme dal sospetto che per il rabbino che ha narrato e per il rabbino che ha trascritto si sia trattato di testi sacri. E' come sospettare che Perrault padre o Perrault figlio (l'attribuzione, è noto, è ancora incerta) nei Contes si siano sacerdotalmente riferiti al mistero della Trinità o dell'Annunciazione per mezzo del Lupo di Cappuccetto Rosso o del Gatto con gli Stivali: una certa incredulità e una certa diffidenza sono naturali. Eppure l'innegabile personalità del narratore emerge con tanta forza dai dati forniti dal trascrittore nella fervida introduzione e dai curatori nel lungo, meraviglioso saggio conclusivo che ci si sente addirittura tentati di ricominciare la lettura con una maggiore consapevolezza ormai della realtà che il Rebbe Nachman è stato uno dei grandi Maestri del movimento mistico diffusosi tra il popolo ebreo dell'Europa orientale dalla seconda metà del XVHI Secolo. Rebbe è una deformazione evidente di Rabbi, e sta a indicare il rabbino a capo di un gruppo chassidico. Chassidico deriva da Chessed che significa devozione amorosa. Devotissimo amorosissimo fu il movimento di cui la leggenda attribuisce la fondazione a Israel ben Eliezer, detto il Baal Shem Tov, e Baal Shem vuol dire Maestro o padrone di Nome Innominabile di Dio, mentre Tov rincara quasi ce ne fosse bisogno: Buono. «Non essere fanatico. Servire Dio non è un fanatismo: i veri fanatici sono coloro che perseguono i beni mondani. Il mondo vi considererà pazzi se abbandonerete questi beni per ricercare Dio... » aveva predicato il fondatore, e Nachman apparteneva alla sua famiglia, ne era il bisnipote. Nato nel 1772 a Medziboz, dove si trovava la santa tomba dell'avo oggetto di continuo pellegrinaggio chassidico. sin da piccolo si era nutrito di leggende più che di pappe, e aveva aspirato ben presto a realiz¬ zare quell'impegnativo verset to dei Salmi che dice: «Ho posto Dio di fronte a me... », esordendo con il rifiuto di provare gusto nel mangiare. Rendendosi conto che stava ancora crescendo e che, quindi, non poteva privarsi di pasti regolari, aveva deciso di inghiottire il cibo senza masticarlo per non ricavarne alcun piacere. Ma la gola infantile gli si era gonfiata eccessivamente e lo aveva costretto a escogitare qualcosa di diverso. Nathan che lo avvicinò, quando era già famoso e discusso, molto discusso, testimonia: «Osservavo sempre il Rebbe con grande attenzione mentre mangiava. Teneva il cibo tra i denti senza lasciare che toccasse il palato, e in questo modo non lo assaporava. E ' una cosa molto difficile da spiegare per scritto, ma potete provare a farla e capirete... ». In un certo senso, non fu Nathan ad avvicinare Nachman, ma Nachman ad avvicinare Nathan. Il loro primo incontro non a caso è definito di chassidica normalità. Insomma, Nathan sognò di andare dal fornaio a far spese, ma di essere costretto a fermarsi per via, assalito da un accesso di disperazione al dubbio impotente che la vita non avesse in serbo per lui altro che un acquisto di pane. In piena crisi, comunque sempre in sogno, si vide apparire davanti un uomo che gli disse che, se voleva aiuto, aveva solo da aggrapparsi. Nathan capì che quell'uomo era Nachman, e, appena desto, lui non proveniente da famiglia di chassidim, ma da famiglia di mitbagghedim, ovvero di oppositori della divulgazione mistica tra il popolo, si presentò all'uomo del sogno. E il Rebbe gli dichiarò che loro due si conoscevano da tanto tempo, anche se si vedevano per la prima volta. Era il 1802. Da allora sino al 1810, anno della morte di Nachman, Nathan fu un altro, anzi visse per spiare un altro, per imparare a memoria un altro, l'altro, nella masticazione come nel canto celebrante Dio nell'erba e nelle fronde di campi e boschi, nei semitoni e le pause di depressione come negli scoppi di collera, nelle prediche dotte come nella narrazione appassionata di fiabe, le cadute e le riprese, gli ardui voli di uomo dotato di tanti nemici perché tanto più dotato di tutti. «Egli mi ha preso per mano, mi ha tratto a sé, mi ha portato come la nutrice porta tra le braccia un poppante», si vanta Nathan. «Egli mi ha destinato a scrivere il suo santo insegnamento... Egli rivestì e nascose i più alti e trascendentali concetti in racconti di eventi, in modo meraviglioso e tremendo... A volte, alla fine di un racconto, Egli ci rivelava meno di una goccia del mare dando scarsi accenni per indicare cosa indicavano le parole narrate... Abbiamo udito queste esatte parole dalla sua santa bocca, e il ricordo di esse ci ha convinto a darle alle stampe... E' chiaro che ascoltare dalla viva voce del saggio non è come vedere delle parole su un libro...» Nathan tanto si umilia quanto si vanta. L'umile Nathan, si firma, appunto. Nachman narrava in jiddish per essere più vicino alla gente a cui narrava, Nathan trascrive in ebraico (anche se nella parte bassa della pagina mette l'originale, secondo istruzioni del Maestro). Ma con parentesi, iterazioni, aggiunte tende a restituire la ricchezza oltre che l'immediatezza della narrazione orale. E ci riesce splendidamente. Una specie di miracolo: queste fiabe, in cui il Rebbe identifica Dio e se stesso in una girandola di re e re sono spesso sgangherate e oscure, incompiute e lacunose, ma sempre irresistibili. Il loro potere è enorme, supera l'eventualità delle interpretazioni più o meno mistiche. E il potere forse è più di Nathan che di Nachman. Nachman diventa addirittura un personaggio di Nathan. Chi è il vero narratore? Certo, la principessa smarrita deve essere proprio la Shechina, la decima e ultima Sefirà, corrispondente alla presenza immanente di Dio nel creato, caduta in basso, finita prigioniera del non bene. Certo, riunirla al suo Signore è il vero senso dei comandamenti della Legge divina. Certo, il viceré che erra alla ricerca è simbolo sia dell'individuo singolo sia del popolo d'Israele visti come collaboratori di Dio nell'opera redentrice che consentirà l'avvento del Messia. Certo, il viceré sta a lungo per raggiungere il suo scopo, ma a lungo viene tradito dalla sua debolezza e mangia il frutto che non dovrebbe mangiare e beve il vino che non dovrebbe bere, e così a lungo deve piangere. Ma a contare è la fiaba, e una fiaba narrata con tanta vitale aggressività e tanto cordiale scialo, prima o poi arriva immancabilmente a liberare la prigioniera dalla fortezza di perle sulla montagna d'oro. Né Nachman né Nathan, comunque, sono chiari in proposito. Del viceré si limitano a dire: «Non raccontò come riuscì a farla uscire, ma alla fine la fece uscire». Punto e basta. La fiaba suggerisce una linea di condotta, non dà la ricetta della vittoria. Sarebbe troppo comodo. Oreste del Buono

Persone citate: Baal, Buono, Giacoma Limentani, Perrault, Shalom Bahbout, Shem, Shem Tov

Luoghi citati: Israele, Rabbi