Quando Orazio, Ovidio e i Papi apprezzavano un buon bicchiere di Piero Cerati

Quando Orazio, Ovidio e i Papi apprezzavano un buon bicchiere Quando Orazio, Ovidio e i Papi apprezzavano un buon bicchiere Quando si parla di vino i «romani de Roma* scuotono la testa come a dire che non sono più i tempi d'una volta. Qualcosa è cambiato nell'enologia laziale se cent'anni or sono si producevano 853.924 ettolitri e oggi 6.100.000: è aumentata la superficie vitata, il settore si è irrobustito con aziende agrìcole moderne e sistemi commerciali dai confini più ampi, la vitivinicoltura ha perso forse quell'aspetto di rusticità che aveva nelle famose «ottobrate-, ma ha compiuto un salto di qualità: oggi il Lazio produce il 7,6 per cen to del totale del vino italiano, con una produttività pari a 90,1 quintali di uva per ettaro (un buon equilibrio se si pensa che in Piemonte, dove la viticoltura è tutta collinare, è di circa 75 quintali per ettaro contro i 152 quintali dell'Emilia Romagna), mentre la produzione lorda vendibile è di 228 miliardi, al 5° posto della graduatoria tra le regioni. Ancora alcune cifre elaborate dai dati Istat in nostro possesso: rispetto alla produzione agraria lorda vendibile complessiva il «peso vitivinicolo» nel Lazio è del 17,6 per cento (Piemonte 9,74 e Puglia 24,1); rispetto al totale regionale, la produzione lorda vendibile sempre nel settore vitivinicolo è del 7,76 per cento (Piemonte 6,10; Puglia 14,63). I vini a denominazione d'orìgine controllata sono diciotto (alcuni doppi: bianco e rosso), ma la loro produzione è bassa rispetto al totale regionale (9 per cento circa) e nazionale (6,5 per cento). (Piemonte 36 vini doc, produzione 16,2 per cento sulla totale regionale e 10,2 per cento sul totale nazionale; Puglia, vini doc 15, produzione 2,0 per cento sul prodotto nazionale e 2,2 percento del totale regionale). Abbiamo voluto accostare le cifre del Lazio a Piemonte e Puglia in quanto queste due ultime sono regioni che godono, meritatamente, larga fama nel settore vitivinicolo: il Piemonte per la qualità e la Puglia per la quantità (ora ha saputo decollare anche per la qualità, creando una nuova immagine ai suoi prodotti in bottiglia, meritevoli di non essere considerati soltanto da taglio o da tavola). Il Lazio è sempre stato trascurato come regione vinicola: famosa la sua cucina, rinomate le hostarie romane, eccellente il bianco secco e fresco da bersi nella «fojetta», ma il cuore dell'enologia regionale — è stato scrìtto più volte con stantia retorica — ha sempre e soltanto battuto nei Castelli Romani col Frascati e col Marino. Pochi ricordano invece che la storia nazionale e la civiltà della vite e del vino ebbe un grande contributo dagli antichi romani Orazio, Ovidio, Tibullo, Marziale ricordavano e esaltavano il Falerno; Livia, moglie del divo Augusto, diceva di essere giunta all'allora eccezionale età di 82 anni grazie al vino di cui faceva buono e frequente uso. Alla corte dei Papi non mancò mai il buon bicchiere in tavola e certa moda transalpina, che oscurò per alcun tempo i vigneti laziali, finì con l'arrivo al soglio pontificio di Paolo III Farnese (1534-'49), già vescovo del suburbio di Tuscolo, dove amò le bellezze naturali di Frascati, il quale dichiarò e sentenziò che «i vini francesi danno alla testa», allontanandoli dalla sua e altrui mensa. Da allora Roma e le ville dei dintorni diventarono una specie di centro enofilo, che faceva capo alla corte pontificia. Questo spiega perché già allora si sentì la necessità di tutelare produzione e costo della vendita dei vini. Marcantonio Colonna aveva stabilito un precedente con gli «statuti» conces¬ si a Frascati, creando — se è lecito far paragoni — il primo Consorzio di difesa e tutela del vino e imponendo ai tavernari la «cognitella» per dare la giusta misura ai consumatori. Si parla del Frascati perché fu uno dei vini portabandiera dell'enologia italiana all'estero, come si parla con aria di mistero e complicità del Cannellino, il tipo dolce del Frascati, che dovrebbe essere fatto come i Souternes francesi, ma per me e tanti altri ormai introvabile: questo si — forse, perché l'ultima parola non è mai detta — vino d'altri tempi. Ma restiamo all'alfabeto dell'oggi: le doc laziali aprono e chiudono il loro v ìcabolario con l'Aleatico di Gradoli e lo Zagarolo, e in mezzo da padrone la fa il bianco, magari prodotto dalle 48 cantine sociali che hanno una capacità lavorativa di circa il 70 per cento della produzione regionale e della quasi totalità del vino doc. Trionfo del bianco come il Bianco Capena che prende nome dall'omonima località in provincia di Roma, trionfo anche del misterioso: il Cesanese ha trìplice volto e trìplice gusto (Cesanese del Piglio, di Affile e di Olevano Romano e per ciascuno i tipi secco, amabile, dolce); nato su terreni vulcanici ricchi di fertili arenarie, sembra un Bartolomeo Colleoni dei vini con quella sua trìplice virilità; poi il Cerveteri dal nome dell'antica città romana e l'antichissimo di fama Colli Albani «polputo, perfetto, nutritivo» come lo definì il cantiniere dei Papi Sante Lancerìo; come i Colli lbani ecco i Colli Lanuvini dal sapore fragrante, vino bianco da bersi giovane. Il Cori bianco e rosso prende nome dalla cittadina ai piedi dei Monti Lepini di antichissima fama (tre tipi: secco, amabile, dolce). Troppo conosciuta è la storia dell'abate Fugger e dell'Est, Est, Est di Montefiascone, che nasce attorno al Lago di Bolsena, di orìgine vulcanica, con terreni adatti ai vigneti; giallo paglierino, secco, dal profumo vinoso è adatto a accompagnare le anguille, i lucci e le tinche del lago. Vini nuovi sono i tre Aprilia (Merlot, Sangiovese, Trebbiano) coltivati dopo la seconda guerra mondiale da un gruppo di reduci dalla Tunisia venuti in possesso dei poderi dell'Opera Nazionale Combattenti con vitigni selezionati: i viticoltori hanno costituito una cantina sociale per la vinificazione delle uve. Il Montecompatri Colonna è il più leggero e secco dei vini bianchi dei Castelli Romani, degno compare del Velletri, che però ha anche un tipo rosso creato con Sangiovese, Montepulciano, Cesanese comune e di Affile, Bombino nero, Merlot e Ciliegiolo. Lo Zagarolo è doc solo in bianco, da bersi giovane nell'annata, da tutto pasto; è il vino che ancora si può trovare in qualche osterìa di Roma. Ma accanto ai celebrati doc (non si dimentichi il Piglio, rosso rubino con tendenza al granata con l'affinamento in botte) esistono poi vini anonimi anche di bassa gradazione, frìzzantini, caratteristici soprattutto delle campagne di Alatri, Ceccano, Fiuggi, Pontecorvo, Paliano: il Selva di Paliano proviene ad esempio da viti piantate nei territori restanti della tenuta di don Antonello Ruffo di Calabria, che volle trasformati in parco naturale i suoi terreni; i vitigni giunsero da vivai di Pordenone: il vino è un accostamento di uvaggi Barbera, Cabernet e Cesanese. di color rosso rubino, dal gusto intenso, adatto a piatti di carne anclie come gradazione: 12-12,50L Piero Cerati

Persone citate: Antonello Ruffo, Barbera, Bartolomeo Colleoni, Bombino, Castelli, Colli Albani, Marcantonio Colonna, Merlot