QUARANTANNI FA TRAMONTAVA IL SOGNO ITALIANO NELL'IMPERO DEL NEGUS

QUARANTANNI FA TRAMONTAVA IL SOGNO ITALIANO NELL'IMPERO DEL NEGUS QUARANTANNI FA TRAMONTAVA IL SOGNO ITALIANO NELL'IMPERO DEL NEGUS Il duca s'arrende sull'ultima amba Hailé Selassié rientra a Addis Abeba il 5 maggio 1941, proprio al quinto anniversario della proclamazione dell'impero italiano - Incalzato dagli inglesi, Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia, va a rinchiudersi con le truppe nel ridotto dell'Amba Alagi - «Non importa quanto potremo resistere» - Gli ultimi giorni prima della resa, il 19 maggio - Gli errori strategici Quando le cornamuse del «Transvaal Scottish» intonarono le malinconiche note di «Flowers of the Forest» e il battaglione dei King's Rifles si schierò ai piedi dell'Amba Alagi per ricevere la resa di uno degli ultimi presidi italiani in Africa Orientale era la mattina nebbiosa di lunedì 19 maggio 1941. Sull'ingresso della caverna-comando comparve l'alta figura di Amedeo d'Aosta, viceré d'Etiopia, in cravatta d'ordinama, i guanti di filo e le lunghe gambe strette nelle mollettiere color kaki. Da Forte Toselli il duca si aiwiò scendendo dall'amba a passi rapidi mentre alla sua sinistra marciava il generale inglese Maine, scortato da un sottufficiale sudafricano col largo cappello alla boera e lo scudiscio sotto braccio. Su due colonne li seguivano i quattromila soldati del presidio, carichi di armi leggere, zaini, valigie di cartone legate con lo spago, chitarre e fagotti. Molti piangevano; tutti — per ordine del duca — si erano fatti la barba. Più indietro ancora, in disordine, i quattrocento ascari superstiti dei battaglioni abissini con le donne tigrine che si erano portati lassù. Amedeo d'Aosta rese il saluto al picchetto d'onore e alla bandiera italiana che si ammainava. Le cornamuse scozzesi attaccarono «Drums and bagpipes gave my heart a turn» e il duca —in pratica già divenuto il prigioniero di guerra nr. 11590 — si diresse al comando britannico. Quella sera scrisse nel proprio diario, affidato in seguito al giornalista Alfio Beretta e poi distrutto: «... Le mie truppe non ci sono più. Il mio comando è finito (...). Non potevo tenere un'altra ora per la mancanza d'acqua e la presenza dei feriti nelle trincee». Cosi, quarant'anni fa, cadeva con l'Amba Alagi un impero proclamato appena cinque anni prima e che puntualmente, proprio il 5 maggio 1941. il Negus Hailé Selassié — accorso da Londra viaggiando sotto i falsi nomi di mister Strong e mister Smith — era venuto a riprendersi. Benché nella prima fase della guerra, estate-inverno 1940, le truppe di Amedeo d'Aosta (quarantaduenne, figlio di quell'Emanuele Filiberto che aveva comandato la Tersa Armata sul Carso e marito della ricchissima Anna di Francia) abbiano conquistato Kassala, Galabat, Ghezan e Kurmak, a Nord; Mojale e il saliente di Manderà a Sud, e l'intera Somalia britannica a Est, la loro stra¬ tegia non è quella adatta a territori tanto sterminati e selvaggi: amiche raggruppare tutte le forze in un ridotto centrale, che offra la possibilità di una difesa manovrata e di una lunga resistema autonoma, il viceré ha preferito proteggere ogni confine dell'impero allungando così a dismisura le linee di rifornimento, disperdendo su un enorme scacchiere le truppe (92.000 nazionali fra la divisione «Granatieri di Savoia» e 80 battaglioni di Camicie Nere e 200.000 indigeni, ascari, zaptié e dubat, malissimo armati, taluni ancora col vecchio fucile 1870 al quale si attribuisce con sarcasmo que- sta battuta: «Io sparato, quello colpito .ma non fermato» e lasciando al nemico la possibilità di concentrare la sua massa d'attacco ne; punti dove noi siamo più deboli. L'offensiva concentrica anglo-indiana e sudafricana divide quindi la nuova guerra ■d'Abissinia in due fronti. A Nord viene isolata la colonne indigena del generale LorenZini, costretta a impegnarsi durissimamente ad Agordat e poi a Cheren dove un generale in gamba, uno dei pochissimi, Carnimeo, combatte una terribile battaglia d'arresto durata 56 giorni, dal 2 febbraio al 28 marzo '41 (e il generale William Platt, che contro Cheren ha scaraventato le sue migliori truppe, si accorge di aver di fronte ottimi soldati, gli alpini del leggendario Uork Amba. Rivolgendosi al suo brigadiere, generale Messervy, Platt dice: «Sono forse capre. Messervy, quelle ombre che vedo saltellare là sul monte?». «Non propriamente, signore — risponde Messervy — Sono soldati. Sono quei soldati che gli italiani chiamano alpini»). Mentre gli anglo-indiani, vinta la battaglia di Agordat e di Cheren, occupano l'Asinara sconfiggendo quel generale Frusci che prometteva di «inseguire gli inglesi fino al Cairo», nel meridione dell'impero i britannici, dopo le sconfitte iniziali, passano alla controffensiva. In Somalia, tra il Giuba e il confine del Kenya, i sudafricani attaccano ai primi di marze. Lo sfondamento avviene a Gumbo. nel tratto più a sud del Giuba dove gli isolotti di sabbia favoriscono il passaggio dei mezzi corazzati e dove — a quanto si racconta — un nostro generale, a chi gli fa notare la mancanza di serie opere difensive, dice: «Per fermare gli inglesi basteranno i caimani», una dopo l'altra cadono Margherita di Savoia, poi Gelib, infine Chisimaio e Mogadiscio. L'ultima resistenza italiana è a Buio Burti, località dell'interno a mezza strada fra la costa e la frontiera somalo-etiopica. Ma gli irregolari e i battaglioni indigeni si sfaldano rapidamente mentre alle truppe sudafricane e keniote si aggiungono i ribelli etiopici e gli sciftà mobilitati dal Negus (il quale ha pur loro raccomandato: «Non commettete nessun atto di crudeltà come quelli che il nemico ha commesso contro di noi fino a oggi. Non offrite al nemico l'occasione di infangare il buon nome dell'Etiopia. Noi prenderemo le sue armi e faremo che ritorni per la strada da dove è venuto»). Travolto il sottile velo dei presidi di confine, gli attaccanti arrivano a Gorrahei, attraversano l'Ogaden, prendono Giggiga e di qui si volgono verso l'occidente: conquistate Harrar e Diredaua. penetrano negli Arussi e finalmente sono ad Addis Abeba. La campagna è finita; è il 6 maggio '41. Mentre il Negus, su una vecchia berlina Alfa Romeo, già appartenente a ras Hailù, entra nella capitale scortato da un colonnello scozzese che diverrà famoso in Birmania nel '44 con la sua colonna. Orde E. Wingate, Amedeo d'Aosta si va a rinchiudere — forse su consiglio del generale Trezzani — nel ridotto dell'Amba Alagi, a 3400 metri. Non è una posizione adatta a una lunga resistenza e il duca intuisce che tutto dovrà finire con la resa, anche se non pensa assolutamente a mettere in salvo la propria persona (il suo aiutante di volo, tenente Tait, gli porta un S-75 con serbatoi supplementari, battezzato «I-Amed» e pronto a partire per l'Italia ma il duca lo guarda e dice: «Loro facciano pure e pensino quello che vogliono ma io da qui non mi muovo» : 4/ generale Gustavo Pesenti, governatore dell'Eritrea, gli va a illustrare una via d'uscita che sarebbe quella di firmare la pace separata con gli inglesi e rivolgere le poche armi contro i fascisti, se Roma lo sconfesserà, e Amedeo freddamente, educatamente, gli mormora: «Meriteremmo di essere fucilati entrambi;, lei per le parole che ha detto, io per averle ascoltate»). Negli ultimi giorni il duca perde il suo più stretto amico e collaboratore, il generale Volpini caduto in un imboscata di sciftà e al dolore per la sconfitta se ne aggiunge uno personale. A metà maggio dice al giornalista Beretta: «Non importa quanto potremo resistere, importa solo fare il proprio dovere». Al generale Rossi, poche ore prima della resa, confida: «Non credevo che sj potesse soffrire tanto. Domani lasceremo questi luoghi con i nostri morti e per noi comincerà la prigionia. Chissà se in Italia capiranno». // duca d'Aosta morirà in Kenya di lì a un anno, il 3 mano '42. stroncato dalla tubercolosi ma alla resa dell'Amba Alagi —cosi nota agli italiani per il sacrificio di Toselli di mezzo secolo prima — sopraiwivono soltanto il presidio di Gondar, comandato dal generale Guglielmo Nasi, e la guarnigione dei carabinieri di Culquaber (colonnello Augusto Ugolini) che resistono fino a novembre. Quando il 27di quel mese anche loro sono travolti dalla montante marea inglese si conclude la campagna dell'Africa Orientale con 15.000 morti (5.000 nazionali e 10.000 indigeni), 107 generali arresi e 100.000 prigionieri e tramonta, definitivamente, l'impero fascista. Giuseppe May da Cliisimaio (Somalia), maggio 1941. Si demoliscono i simboli dell'«impero italiano»