Burgess: tutti allegri verso il disastro universale di Anthony Burgess

Burgess: tutti allegri verso il disastro universale Intervista: i paradossi del romanziere inglese Burgess: tutti allegri verso il disastro universale MONTECARLO — «C'è stato uno sciopero, qui, è incredibile, incredibile». Anthony Burgess non se n'è accorto ma non tanto perché non c'era, forse era a Londra o a Milano, o a New York, ma perché dà l'impressione di poter vivere in ogni posto creandosi un'isola, di libri, dischi, fogli, che gli assicura uno spazio sempre uguale fatto di conversazione e lavoro. Anche ora nel grande appartamento - accampamento, fra pile di cuscini, posta, strumenti musicali, libri, dietro il porto, in una delle sempre più rare case basse di Monaco, Anthony Burgess ha l'aria di non essersi mai alzato dal divano su cui è seduto, le gambe accavallate, il lungo sigaro che magicamente a intervalli appare, acceso, fra le dita. Nato a Manchester nel 1917, ex ufficiale di Sua Maestà, funzionario nel campo dell'educazione pubblica in Malacca nel 1954, lecturer nel Borneo nel 1959, con un passato di compositore e un giovanile desiderio di fare il pittore, ma frustrato da una forte daltonia, Burgess è oggi uno dei più grandi scrittori di lingua inglese, autore fra l'altro di romanzi letti e pubblicati in tutto il mondo: «Un'arancia a orologeria» (reso celebre dal film di Kubrick), «La dolce bestia», «MF», «Malesia», saggista, poeta e critico letterario. Una delle sue ultime polemiche attenzioni l'ha rivolta al fenomeno dei best-seller, che confessa di leggere ma il cui successo e ragione pseudoculturale non gli va giù. «La gente non legge Croce, Shakespeare ma Robbins, "Principessa Daisy", il romanzo della Fallaci, come si chiama? "Un uomo" che è un libro orribile, inetto. Bisogna studiarli questi best-seller...». — Signor Burgess il pubblico è imprevedibile, pensi alle centinaia di migliaia di persone che corrono a Firenze per vedere la mostra dei Medici o a Venezia per Kandinsky. «Una illustrazione è un segno più comprensibile e preferibile che la parola, la parola ha una forza ambigua. Anche se poi c'è nostalgia per la parola. E perfino a Hollyivood, dove un libro che ha molte pagine diventa subito un best-seller, un film, delle magliette. Ma non "Guerra e Pace" che nessuno legge. Una copia non è difficile trovarla in qualsiasi casa, perché chi l'ha comprata si riserva la possibilità di leggerlo, forse, prima di morire e comunque è un pegno che paga nei confronti della letteratura». — Ma perché la coda per vedere un pittore difficile come Kandinsky? «Nessuno capisce bene questo fenomeno della cultura di massa: prima accadono questi fenomeni, dopo se ne cercano le ragioni. Io credo die sia un atto gregario, non un atto estetico. Stavo scrivendo un libro sulla fine del mondo e mi veniva naturale descrivere delle occasioni in cui molta gente si riunisce sema un motivo. Prima di ogni guerra c'è sempre un fenomeno di aggregazione, che si può forse spiegare con necessità di conoscere l'essere umano». — O come desiderio di nuova religiosità? «C'è il grande desiderio di un disastro universale come soluzione ai nostri problemi. E'pericoloso dir¬ lo. Ultimamente nei confronti della Polonia non c'era la paura dei carri armati russi, ma il desiderio dell'invasione. L'ultima guerra è finita da quanto? Trentaquattro - trentacinque anni fa. Troppo tempo. E le soluzioni di tanti problemi sono più possibili in tempo di guerra che di pace». —Dove vuole arrivare? «Nel '39 una libbra equivaleva ad un certo taglio di moneta, alla fine della guerra non aveva cambiato il suo valore, era più o meno uguale. E poi non c'era disoccupazione, c'era lavoro per tutti, uomini e donne». — Fatalismo o pessimismo, lei parla di disastro e guerra con troppa serenità. «No, io sento che c'è un desiderio di disastro, siamo animali che vogliono l'eccitazione. La vita di pace è un sogno sconfitto dalla realtà. C'è una componente fisiologica immutabile». — Un irreprimibile bisogno di violenza? «Nel romanzo "Seme inquieto" avevo parlato di cannibalismo, la situazione sembrava comica, grottesca, poi qualche anno dopo c'è stato il disastro aereo sulle Ande. E il cannibalismo è diventato un discorso possibile». — Lei con «Un'arancia a orologeria» è stato fra i pri¬ mi scrittori a parlare della nuova violenza metropolitana... «La violenza non mi interessa, è un soggetto pericoloso per uno scrittore, troppo facile da realizzare, può provocare degli impulsi che devono essere invece controllati. Io nel libro avevo usato un linguaggio che distanziava la violenza». — E' convinto che ci sia un rapporto diretto fra la violenza rappresentata e quella reale? «Per molti anni avevo creduto che l'arte fosse una cosa statica, ora non lo credo più. La finzione è una imitazione della verità. Esiste prima la violenza dell'arte. L'arte è una figura stilizzata della realtà. A Londra è stato preso un criminale che uccideva sotto l'ossessione della musica di Beethoven. Vent'anni fa non ci avrei creduto». — Cinema e televisione, secondo lei, quanto possono influenzare e determinare comportamenti negativi? «Molto. Non è più possibile creare separazioni sullo schermo, non si distingue più ciò che è fittizio da ciò che è attuale. C'è una mistura. E' possibile così uccidere John Lennón come se lo si facesse su uno schermo e pensare: "Sono un attore controllato da un regista, da Dio. dal Diavolo". A New York sono pas¬ sato due giorni prima del suo assassinio, avevo visto la casa, c'era intorno un senso di brivido, di raccapriccio, e avevo capito perché proprio lì Polanski avesse girato "Rosemary's Baby". Ma ho avuto anche la sensazione che dovesse succedere qualcosa. Dopo ho saputo che l'assassino aveva letto II giovane Holden, che è un libro sull'amore. Il suo era stato un gesto d'amore. Tutto ciò non è umano. Ma questa è una generazione che non pensa più. E pensare è una funzione umana. Ha abdicato». —E perchè? «Penso ai professori negli Stati Uniti, che sono sempre un paese democratico e calvinista. Li, dove le Università sono un bene di consumo, i professori scelgono per i loro corsi libri non difficili, di piccola mole, non "Guerra e Pace", ma Salinger, "Un'arancia a orologeria". Io ho insegnato in una Università americana, avevo duecento studenti. Volevo fare un corso su Shakespeare. Ho spiegato che dovevo scrivere tre versi nel latino di Seneca perché potessero capire certe corrispondenze metriche, strutturali. Una metà di loro ha protestato dicendo che non eran lì per scrivere latino». — E' da poco uscito un suo romanzo in Italia, «Malesia», ma ne è già annunciato uno nuovo, come si intitola? «Forse si chiamerà "Poteri terrestri" e lo pubblicherà Rizzoli. E' un libro di seicento pagine su un grande problema del nostro tempo, il conflitto fra il bene e il male. C'è uno scrittore molto vecchio e omosessuale che ricorda Somerset Maugham, un papa che ho inventato io, risultato di una commistione di papi esistiti, c'è il Vaticano, il Concilio. C'è un miracolo fatto dal papa che fa guarire un ragazzo moribondo. Più tardi questo ragazzo diventerà un fanatico assassino come Jones. Perché Dio ha permesso questo miracolo? Dio si fa così responsabile del male che accadrà? Per i cristiani è difficile accettare che il Diavolo sia un aspetto di Dio». — In Inghilterra e in America han scritto che il suo papa assomiglia a papa Giovanni, è vero? «Più a lui certo che a papa Wojtyla. Wojtyla è un personaggio pop, come Elvis Presley. Ha il culto della personalità, hanno ragione i russi quando la condannano. E'la dottrina che conta, non la personalità. Il papa deve condannare le Brigate rosse e l'aborto, che è un assassinio. Ma deve ricordarsi che abbiamo il diritto di scegliere, affermare l'importanza del libero arbitrio, le questioni di aborto o di contraccezione restano affidate alla coscienza dell'individuo. Si può scegliere anche di essere assassini». — Signor Burgess, quando scrive riesce a dimenticare tutte le lingue che conosce? «Quando scrivo penso solo in inglese. Ma la lingua dell'Inghilterra è finita, la lingua inglese dei nostri tempi è quella che c'è in America dove però cambia quotidianamente. Eppure è lì che si trova il pubblico». — U futuro della letteratura è allora in America? «L'avvenire della letteratura è nei dialetti. — E la musica? Non scrive più canzoni e sinfonie? «Continuo, compongo musica orchestrale, da camera. Ho appena finito, musica e libretto, ma sono quattro volumoni, per V "Ulisse" di Joyce. Me l'ha chiesto la BBC per il centenario della nascita, che cade nel prossimo anno. E poi vorrei scrivere un libro che spieghi cosa significa la musica e in quali rapporti è con la letteratura. Ma sono pigro, tanto pigro Nico Orengo «La vita di pace è un sogno sconfitto. Il cannibalismo è diventato un discorso possibile» «La violenza? Non mi interessa, può provocare degli impulsi che uno scrittore deve saper controllare» «L'ultimo lavoro? Ho ridotto "Ulisse" di Joyce in un'opera musicale»