Per i nemici di Garibaldi
Per i nemici di Garibaldi Parliamone Per i nemici di Garibaldi IN Bandi e in Abba — invadenti testimoni di campo avverso a quello in cui si muovono gli eroi di Alianello, Io scrittore scomparso nei giorni scorsi — ci sono due passi, due immagini, che idealmente ho situato come epigrafi alla lontana lettura de L'Alfiere, ad attenuarne quella che allora poteva essere considerata una provocazione. La prima è quella di Garibaldi a Calatafimi, poco prima della battaglia: sta seduto su un muretto fumando placidamente il suo mezzo sigaro; in basso, nella vallata, le truppe borboniche dispiegano la manovra con cui investiranno la collina su cui stanno i garibaldini; Garibaldi guarda con occhio sereno, come stesse assistendo a una parata, e non ai prodromi di una battaglia da cui potrebbe uscirne battuto, e a un certo punto dice: «Bella truppa!». L'altra immagine, di Abba, è quella del maggiore borbonico Bosco nel momento in cui, reduce dal vano inseguimento verso l'interno a quella che si credeva la fuga di Garibaldi, nel quartiere di Palermo detto della Fieravecchia, viene fermato dall'investire la città in parte occupata dai garibaldini dalla notizia che un armistizio tra Garibaldi e il generale Lanza era già stato firmato. Bosco, dice Abba. si agitava di rabbia come uno scorpione dentro un cerchio di fuoco. E si capisce. Quei cinquemila uomini del colonnello von Meckel avevano per un paio di giorni inseguito, e per giunta inutilmente, quella sessantina di feriti e di «lavativi» che Garibaldi aveva mandato verso l'interno al comando di Giordano-Orsini: e credendo di star dietro a tutta la banda dei garibaldini (Abba commenta con esultanza: «Sia gloria a questo popolo, non ha dato ai nemici una spia!», non sapendo che nemmeno agli amici ne avrebbe poi dato). Avevano poi appreso che Garibaldi, nel frattempo, era entrato a Palermo dopo una notturna scaramuccia. Apprendevano, ora, arrivando esasperati e esasperatamente pronti alla battaglia, che c'era armistizio e che si imponeva loro di rispettarlo. Non bastava al generale Lanza aver fatto suonare l'ordine di arretramento nel momento in cui si stava per vincere (e ne era segno la bandiera garibaldina già presa), a Calatafimi: bisognava anche accettare e rispettare un armistizio stipulato con quei briganti che dicevano di battersi per una causa che non aveva ombra di legittimità: rispettare una legge, una regola, con gente che leggi e regole non conosceva. E va bene che la storia non si fa con i «se»: ma se quei cinquemila uomini di von Meckel non fossero stati fermati alla Fieravecchia, l'annientamento dei garibaldini e l'impiccagione di Garibaldi sarebbero stati sicura conseguenza. A questo nodo storico — la colonna von Meckel mandata a un vano inseguimento, l'armistizio intempestivamente stipulato e scioccamente rispettato — rimasero allora i fedeli alla causa borbonica. Tentarne di scioglierlo con la spiegazione del tradimento (così come i fedeli al fascismo la sconfitta e l'armistizio del 1943), ma in effetti altra spiegazione non c'era che quella della causa già persa, della causa persa prima ancora che si arrivasse al combattimento. E di questa causa persa, o almeno della memoria di coloro che la persero, della memoria dei vinti, Alianello si fece difensore. Sembrò allora, quando L'Alfiere fu pubblicato, qualcosa che tenesse del senno del poi e fosse una provocazione; ma non se ne fece gran conto. Poco avanti, parlando degli accadimenti del maggio 1860, ho usato il termine intempestività. Si può dire che Alianello pure si è svolto, come scrittore,' sotto il segno della intempestività. Se L'Alfiere fosse stato pubblicato alla fine degli Anni Cinquanta, poco prima o subito dopo // gattopardo, forse avrebbe di più provocato e suscitato un certo dibattito. Ancora un «se». Di certo, possiamo dire che è un libro da rileggere, a ouverture di letture come La fine di un regno del De Cesare e il Da Boccadifalco a Gaeta di padre Butta (il cappellano della colonna von Meckel): un libro che ha il merito di far vivere la memoria dei vinti, in un Paese dove prevalentemente vive e domina la memoria dei vincitori. Leonardo Sciascia Garibaldi entra a Palermo. Disegno di A. Molla
Persone citate: Abba, De Cesare, Lanza, Leonardo Sciascia Garibaldi, Meckel
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