Virgilio amato ma non sempre

Virgilio amato ma non sempre nel bimillenario della morte Virgilio amato ma non sempre Virgilio morì a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia, esattamente duemila anni fa, il 21 settembre del 19 av. Cristo. In Grecia, durante una visita a Megara sotto il sole cocente, fu colto da malore: ripartì immediatamente per mare; ma allo sbarco il male si era ormai irrimediabilmente aggravato. Lo portarono dopo morto a Napoli e lì lo seppellirono, al secondo miglio sulla via di Pozzuoli nei pressi di Posillipo. di dove aveva tante volte contemplato il magico Golfo. L'epitaffio da lui stesso dettato cominciava col ricordo: «Manina me genuit...». Vicino a Mantova, nel villaggio di Andes, Virgilio era nato cinquantun anni prima da modesti genitori: un vasaio o bracciante e la figlia di un banditore, che lo partorì frettolosamente, in un fossato lungo la strada. In quel breve giro di decenni si era racchiusa una vita colma di solitudine e irta di sofferenze, da cui erano usciti alcuni versi meravigliosi e almeno un poema centrale nella civiltà europea. E' Eliot ad aver sottolineato per ultimo questo aspetto primario per noi oggi nella poesia di Virgilio, aspetto che richiama al poeta «naturalmente cristiano» dei primi padri della Chiesa: soprattutto attraverso Dante, Virgilio «ha condotto l'Europa — sono parole di Eliot — verso la cultura cristiana che egli non poteva conoscere» ma che ha vissuto come nessun altro pagano, in una sorta di straniamento magico dal suo tempo. La grandezza misteriosa di Virgilio è già in questa sua estraneità alla civiltà di cui pure fu figlio. In una società collettivista, in una città fatta di . guerrieri, di ambiziosi pragmatisti, di folle votate al circo e al sussidio statale, in una repubblica nobiliare avviata verso l'autocrazia. Virgilio s'immerge in sogni di poesia, di palingenesi morale, di pace universale. Vive appartato, più spesso fra gli epicurei di Napoli che fra i politici di corte, raramente e di malavoglia a Roma, evirando la popolarità: incapace di prendere la parola in pubblico tanto da dar l'impressione, a chi non lo conosce, di un incolto: ignaro di matrimonio e di piaceri venerei fino ad essere soprannominato la Verginella, «anima candida» secondo il suo malizioso amico Orazio, intento a comporre i suoi versi con una incontentabilità esasperante. Ma quando allora, in una cerchia ristretta di amici ove non mancavano né Mecenate né Augusto, recitava quei suoi esametri accuditi come un'orsa fa con gli orsacchiotti, dove il latino, senza nulla perdere della sua austerità, assumeva una suggestione inimmaginata, la sua voce diventava irresistibile: fossero gli interi quattro libri delle Georgiche letti ininterrottamente per quattro giorni da lui e da Mecenate all'imperatore sofferente di gola, o il sesto dell'Eneide, quello della discesa agli inferi e del regno delle ombre, recitato ad Augusto e a sua sorella Ottavia fino a che, sopraffatti dalla commozione, gli imposero di tacere. Questi erano la natura e il fascino di quel contadino corpulento e fragile, di colorito bruno e malferma salute, goffo e ombroso. Perciò dalle sue mani sono usciti dei timidi versi giovanili — le Bucoliche — in cui la vita dei pastori è cantata come un paradiso perduto; e la campagna delle successive Georgiche non è già più l'idillio degli Arcadi ma lo scenario della fatica umana nel passaggio obbligato della natura; e infine l'Eneide, in cui, come diceva Pascoli, egli rappresentò del suo popolo, come esso cercava, non le gesta ma l'anima. E per questo fu sempre amato. Anche chi non riesce a seguire la melodia interna dei suoi poemi che ne sono, secondo Klossowski, il vero movimento, pure avverte la grandezza e la pena di vivere di quest'anima «maestosa nella sua mestizia» secondo l'affettuosa definizione di Tennyson. Non l'hanno capito stranamente i romantici, rapiti dall'informe enormità di Omero. La condanna di Lessing si trasferisce nell'indifferenza di Goethe e culmina nella stupì- ' da sferzata di Byron («E' un plagiario armonioso e un miserabile adulatore»). C'è un aneddoto dei preferiti da Yeats e non a caso riferito da Ezra Pound. secondo cui un marinaio pensa di studiare il latino, e il maestro gli fa leggere l'Eneide: dopo un po' di lezioni il maestro domanda al marinaio cosa pensa dell'eroe del Poema: «Quale eroe?» chiede il marinaio: «Ma Enea, naturalmente» risponde il maestro. E l'altro: «Enea un eroe? Diavolo, credevo fosse un prete». Di qui viene fuori il Virgilio celebrato nel bimillenario della nascita nel '30 e accomodato a un'etica nazionalistica. Ma chi ha capito e venerato Virgilio nell'America degli Anni Cinquanta è un altro poeta come Robert Lowell: che nel suo carme sul «vecchio di Concord», trasferitosi in Enea, contrappone ai miti vitalistici del nostro tempo il grido di allarme per la perdita dello spirituale, della generosità dell'offerta, del mistico senso della vita nella morte. Questo ci riallaccia al maggior tentativo d'interpretazione e di simbologia virgiliana operato nel dopoguerra con «La morte di Virgilio» di Hermann Bloch: un intero, grosso romanzo centrato sulle ultime ore brindisine del poeta, quando un'ombra pare stendersi intorno a lui mentre in lettiga attraversa la folla plaudente e tutto, anche la sua arte, gli appare come un tradimento dei doveri dell'uomo: la riconciliazione con la vita avviene solo nella morte e nel dono puramente umano del poema all'imperatore. Così Virgilio, proprio attraverso il protagonista per definizione «eroico» di un poema epico, giunge alla penetrazione dell'anima umana nella sua misura più semplice e vasta, più duratura. Lì va trovata la grandezza semplicissima di quest'unico genio universale della letteratura romana, il meno romano dei poeti. Come ricorda Marino Barchiesi in un saggio recentemente pubblicato (in «I moderni alla ricerca di Enea». editore Bulzoni), durante la notte che fa da interludio fra la prima e la seconda parte della Gita al faro di Virginia Woolf. una luce brilla solitaria dentro la villa della signora Ramsay: quella del vecchio poeta Augusto Carmichael. che nella sua stanza veglia leggendo Virgilio, certo non a caso in quella tenebra simbolica della voragine del tempo. Carlo Carena Virgilio in un mosaico conservato a Tunisi