Bobbio: sulle tracce del moderno principe

Bobbio: sulle tracce del moderno principe UN VOLUME DI STUDI HEGELIANI Bobbio: sulle tracce del moderno principe Poche settimane fa. mi trovavo a Lugano, la città «cattaneana» che amo molto e dove spesso mi riporta il sogno di un centro universitario svizzero post-laurea, capace di preservare anche negli studi superiori quell'angolo miracoloso di intatta lingua italiana fuori dai confini della patria (Carlo Cattaneo potè solo insegnare al liceo cantonale, che ne serba così fedele memoria). Conversando col titolare della pubblica istruzione del governo cantonale — un governo a misura d'uomo, per meno di trecentomila cittadini — l'amico Speziali, «liberal-radicale» quasi a riprendere anche nei partiti svizzeri la classificazione cattaneana, il discorso cadde su Norberto Bobbio e sulla straordinaria efficacia che sugli educatori del Cantone, sui futuri maestri elementari, aveva avuto anni fa un corso di educazione storica e civica tenuto dal maestro dell'università di Torino: fondamenti della nostra carta costituzionale non meno che della nostra evoluzione storica. «Per i maestri elementari?»: incalzai quasi avessi capito male. «Sì»: mi rispose Speziali. E mi illustrò l'assoluta umiltà con cui Bobbio aveva accettato l'incarico, lo scrupolo esemplare con cui l'aveva assolto, la laica generosa passione che vi aveva profuso. Quasi nel solco di Carlo Cattaneo, con le stesse doti di educatore paziente e. vorrei dire, inflessibile. Perché meravigliarsi? Nessuno dei grandi scrittori politici italiani di questa nostra tormentata stagione ha la chiarezza essenziale di Bobbio. Espositore magro e asciutto, conseguenziario e quasi martellante, senza una punta di adipe. Mai incline all'evasione retorica o alla deformazione celebrativa (riunendo, tanti anni fa, per un editore appartato, una galleria di ritratti di maestri e amici, da Gioele Solari a Piero Calamandrei, uno dei libri più belli e più sconosciuti di questo dopoguerra, «Italia civile», si era scusato nella prefazione se, trattandosi in gran parte di discorsi, era rimasta «qualche concessione all'effusione dei sentimenti, all'oratoria commemorativa»). Giurista, che conosce tutti i limiti del diritto; storico, senza nessuna indulgenza agli assoluti dello storicismo; filosofo, che non si chiude mai nella gabbia di un pensiero globale, predeterminato, «ne varietur». Soprattutto grandissimo animatore e suscitatore di problemi, «sperimentalista» in una via che da Cattaneo ci porta a Gobetti, al «suo» e nostro Gobetti. Allievo di Gioele Solari, lo stesso maestro di Gobetti, educato allo stesso rigore critico, allo stesso rifiuto motivato di ogni filosofia irrazionalista e consolatoria. E credente nella sola religione del dubbio e della tolleranza. * * Per Bobbio vale un po' la stessa regola di Jemolo: il grande pubblico lo ha conosciuto attraverso la terza pagina dei quotidiani (e nel caso specifico, con orgogliosa consapevole fedeltà, attraverso questa terza pagina). Quando si è detto tutto il male possibile dei giornali italiani e dei loro difetti o insufficienze o anacronismi — e non ne mancano i motivi —, non si potrà mai dimenticare questa sottile, talvolta inconfessata funzione di mediazione che i grandi quotidiani svolgono, da almeno ottantanni e perfino compreso, in qualche misura, il fascismo, rispetto alla cultura italiana: contributo all'unificazione civile e morale del paese forse maggiore delle guerre vinte, o credute vinte. Probabilmente il «mestiere» dell'elzeviro, innestandosi su un meccanismo mentale «naturaliter» razionale e semplificatore, ha finito per incidere sullo stesso stile universitario di Bobbio, accentuandone quelle doti di esemplare, perfino sconcertante chiarezza che lo hanno sempre accompagnato (ricordo, ragazzo o poco più, la lettura della «filosofia del decadentismo» o della prefazione ai cattaneani «Stati uniti d'Italia», primo suo scritto dopo la sofferta e travagliata Liberazione). Adesso Einaudi raccoglie un piccolo libro dal titolo dimesso e quasi allontanante (per il pubblico di massa). «Studi hegeliani», con un sottotitolo già più penetrante e incalzante: «Diritto, società civile. Stato». Ed è un «test» fondamentale della chiarezza di Bobbio non meno che della sua assoluta indipendenza intellettuale. Pri¬ mo libro, se non ci sbagliamo, che porta nel titolo Hegel; altre, e belle, pagine hegeliane erano uscite nel volume di Morano, oltre quindici anni fa. «Da Hobbes a Marx» e fin da allora era affiorata la tesi, su cui spesso il nostro amico è tornato, di Hegel come continuatore del giusnaturalismo moderno, quasi momento di compimento e di dissoluzione dello stesso. Ma qui il panorama si allarga. Sono tutti, o quasi, scritti successivi al 1966, a quando l'autore fu invitato, dalla «Hegel-Gesellschaft». a tenere la relazione introduttiva al congresso di Praga dedicato a un tema che coincideva con la sua stessa disciplina accademica. «Hegel e la filosofia del diritto» (e un'altra relazione importante è quella sulla «Costituzione in Hegel», tenuta al congresso di Heidelberg del 1970). Ma il rattenuto autobiografismo intellettuale, che sempre percorre la pagina di Bobbio e tanto spesso la riscalda, riporta questi saggi molto più indietro sul filo della memoria storica, agli stessi primissimi Anni Trenta decisivi per la cultura torinese, per le sue fratture, per le sue successive ricomposizioni. L'ombra di Gioele Solari si proietta anche sugli studi hegeliani in quello che è forse il capitolo più stimolante e aggressivo dell'operetta. «Sulla nozione di società civile». Ancora l'università di Torino, ancora l'Accademia delle scienze (come in «Italia civile»). Il primo centenario della morte di Hegel, nel 1931, come momento di provocazione o meglio di pretesto; un numero speciale della «Rivista di filosofia» quasi contrapposto al discorso sul concetto hegeliano di Stato («Der hegelsche Staatsbegriff») che Giovanni Gentile avrebbe pronunciato a Berlino nell'ottobre, tutto incentrato sulla divinizzazione dello Stato etico; la rivendicazione, avanzata da Solari in quelle pagine, della società civile come concetto autonomo dallo Stato, come qualcosa che non poteva essere immedesimato con la statualità. che giustificava «le basi di una filosofia sociale», che autorizzava a parlare — allora il termine non era di moda — di pluralismo non meno sociale che istituzionale. «Società civile» che non si identificava affatto col marxista «sistema dei bisogni», riflesso di una riduzione economicistica rifiutata da Solari non meno che da Bobbio. * * Intendiamoci: Bobbio non annette Hegel a nessuna delle filosofie oggi dominanti, di destra o di sinistra, impegnate da decenni nella «singoiar tenzone» di strapparne l'eredità da una parte o dall'altra. Hegel è Hegel: maestoso nella sua solitudine e talvolta nella sua impenetrabilità. Politicamente vicino a una concezione della monarchia costituzionale che escludeva una Camera fondata sui partiti ma ammetteva soltanto una dieta rappresentativa di interessi, accanto a una dieta ereditaria. Con tutte le sue fobie: a cominciare da quella contro il sistema britannico di governo. Ma la forza di Bobbio è di vivere intero e senza illusioni il dramma del mondo moderno, della delegittimazione del potere tradizionale, della difficoltà crescente del nuovo potere democratico a rispondere a tutte le istanze che salgono dal turbinio della società civile (chi ha dimenticato le pagine dedicate, sotto questo profilo, da Bobbio a Gramsci?). Non vedo richiamato da Bobbio il saggio giovanile di Hegel, «Libertà e fato», che apparve postumo nel 1893 e che conteneva l'esaltazione del «principe» machiavelliano («ciò che sarebbe orribile se compiuto da un privato contro un altro privato... Diviene ormai giusto castigo»). Ma non ho dubbi sulla ripulsa del nostro amico rispetto a quelle pagine, che il grande filosofo correggerà ma che lasceranno tracce altrettanto profonde (da dove nasce il concetto gramsciano del partito come «principe» moderno?). Per Bobbio, come per Cattaneo, non c'è dignità dello Stato che possa contrapporsi alla libertà dell'individuo. Un detto di Hegel è per lui immortale: «Ciò che è libero c senza invidia». Giovanni Spadolini

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