Giolitti non rispose

Giolitti non rispose LE LETTERE DI GIUSTINO FORTUNATO Giolitti non rispose Il 23 dicembre 1923, da Napoli, Giustino Fortunato, ormai settantacinquenne, smagato dalla lotta politica, senatore appartato e in «gran dispitto» verso il regime fascista avanzante, una delle poche integre voci dell'antifascismo intransigente di origine liberale, scrive al fedelissimo giolittiano Antonio Cefaly, sottoponendogli un quesito, fra politico e di etichetta, in cui si riassume intero l'animo suo. «Dacché ho l'uso di ragione, dacché non sono più deputato, scrivo a Giolitti, sempre cortese con me, cortesissimo nella nomina a senatore, pel Capodanno e pel suo onomastico. Sempre mi ha risposto, meno pel Capodanno e l'onomastico dell'anno che è per cessare, lo, certo, gli riscriverò or ora. Tu, se puoi, assicurati e assicurami che nulla è di immutato nel suo animo per me, mi renderai davvero felice». La lettera a Giolitti inviata per San Giovanni, nel giugno 1923, e rimasta senza risposta, era stata particolarmente intensa, particolarmente accorata. «Un anno più triste dell'altro, questi ultimi, e sempre più incerto e fosco il domani. Non questo, no. era il presagio del l'anteguerra». Come dimenticare, incalzava Fortunato, «la perseverante, avveduta politica fatta, per tutto il cinquantennio, di legalità e di libertà»? «Riavrà, e l'una e l'altra, il nostro Paese, il meno tardi possibile, e ritroverà in esse quella compostezza di serenità e di pace, cui tutti aspiriamo?». L'interrogativo era. in gran parte, retorico. Fortunato apparteneva alla schiera dei pessimisti assoluti, in quel 1923 in cui molti liberali guardavano ancora con simpatia o indulgenza al fascismo. Non aveva coltivato la minima illusione, sulla possibilità di costituzionalizzare. di addomesticare il movimento delle camicie nere (in polemica, fin dall'ottobre '22, col suo grande amico Benedetto Croce). Scorgeva nel fascismo erompente una specie di somma dei difetti e delle caratteristiche nazionali, quella che il suo amico Piero Gobetti (venuto a presentargli la giovane sposa nel gennaio 1923) chiamava «l'autobiografia della nazione». Constatava, nel Mezzogiorno, la continuità quasi fisica fra fascismo e prefascismo, fra camorre democratiche e mafie squadristiche. «Il Mezzogiorno non disturberà il fascismo» — scriveva a Gioacchino Volpe, un interlocutore costante del suo carteggio, quasi a conferma, ancora in quegli anni, dell'autonomia dello storico di razza rispetto ai condizionamenti politici di allora e di poi —. «Servirà plebeamente Mussolini, come ha sempre servito tutti, salvo a darne la colpa agli spagnoli e ai Borboni, quintessenza del nostro sangue e della nostra carne». Conosceva, dall'interno, per lunga milizia parlamentare, per profonda esperienza di uomini e cose, il vero metallo su cui erano forgiati taluni degli statisti liberali dai nomi pom posi o risonanti. Prevedeva che non avrebbero resistito alla 'lunga, che si sarebbero adegua ti al clima della dittatura. Sem pre a Cefaly. il 29 gennaio del 1924. scriveva: «Non da starna ne soltanto Orlando e De Nico la io ero sicuro che si sarebbero genuflessi al dittatore». E il pa ragone con De N icola e Orlan do ingrandiva le proporzioni d Giolitti. maestoso nella sua so litaria opposizione parlamentare, senza sbavature giacobine ma senza debolezze di falso gi rondismo accomodante: «La solitudine gli giova, perché lo ingigantisce». L'ultimo volume del carteggio 1923 - 1926 di Giustino Fortunato, uscito in questi giorni da Laterza a cura di Emilio Gentile, non ci chiarisce, pur dopo quello sfogo di fine dicembre 1923. il perché della mancata risposta di Giolitti. Ma ci dimostra che il legame Fortunato-Giolitti sopravvisse anche a quel temporale protocollare, che doveva essere terribile per un uomo come Fortunato amante delle forme, intransigente nel galareo, implacabile nella sua cortesia raggelante (ci sono, in questo volume, numerose lettere a Giovanni Ansaldo, ancora compagno di cordata di Gobetti nell'esperienza di Rivoluzione liberale, in cui l'invito a non chiamarlo «gentilissimo senatore» è accompagnato da una nota di orgoglio quasi regale, che mai l'umiltà formale riesce a dissimulare. 11 chiarimento deve essere stato totale se il 17 febbraio 1924. sempre scrivendo a Cefaly. Fortunato insiste su «Giolitti il solo, il solo che abbia saputo e voluto serbare coerenza e dignità. Come godo di essergli stato sempre devoto, anche quando politicamente non ero con lui». E politicamente don Giustino era stato tutt'altro che giolittiano. almeno nel primo quindicennio del secolo. Vicino a Sonnino sui banchi parlamentari, accomunato al barone toscano da un fondo di sdegno di destra storica, contro tutti i pasticci del trasformismo filosocialista. E critico sempre del socialismo, anche e soprattutto nelle sue varianti di riformismo piccolo-borghese. Avversario risoluto e intransigente del «giolittismo» nelle sue manifestazioni di clientelismo meridionale; amico, e sostenitore, della condidatura di Gaetano Salvemini contro il «ministro della malavita». Sognatore di una redenzione morale dell'Italia molto più che di una cura demiurgica, di compromesso, di connubio ai vertici fra forze diverse e discordi. La sua stessa visione di un Mezzogiorno naturalmente povero, contro tutte le stucchevoli deformazioni della retorica del sole e dello stellone, lo portava a una visione schiva, anti-demagogica. scabra e sofferta della lotta politica e degli strumenti volti a esercitarla. A riawicinarlo a Giolitti era stato, nel '14-'15, il comune prudente atteggiarsi di fronte alla guerra mondiale, «la guerra sovvertitrice» com'egli scriverà in un mirabile opuscolo pubblicato nel 1921 a sue spese, come quasi tutti i suoi scritti: e quali tremendi rapporti con Laterza! Piuttosto neutralista che interventista; comunque portato a prevedere, con lucidità impietosa, le proporzioni dello sconvolgimento, anche di classi, che la guerra avrebbe portato con sé, quasi come applicazione immediata e indiscriminata del suffragio universale, e senza i correttivi di Giolitti. «E' la guerra che ha segnato la fine dell'Europa e della civiltà europea»: scrive a Guglielmo Ferrerò, il 27 dicembre 1923. E il fascismo stesso gli appare come la «vendetta della guerra». Paese balcanico? Tu¬ rati lo rimprovera per l'uso del termine, e Fortunato risponde, il 7 gennaio 1924: «Ma se lo è da tanto tempo, non senza, anche, colpa dei socialisti». Il suo pessimismo non è mai inerte, mai giustificazionalista né arrendevole. E' sempre lucidamente anticipatore. Con Salvemini, il 20 gennaio 1923. quando il filo-fascismo domina cattolici e borghesia, si confida: «Si apre un'epoca di generale impoverimento, effetto, in principal modo, se non unico, della mala amministrazione finanziaria, dilapidatrice e dissipatrice». Parole che potrebbero essere di oggi. «E ' il manicomio — scriverà un'altra volta a Volpe — l'Italia finanziaria, effetto dell'Italia politica». «L'ora presente, scrive a Giovanni Amendola il 13 novembre 1924, ci ha rivelato, ancora una volta, d'un colpo, il sudamericanismo di cui viviamo». Un capitolo a parte meriterebbero i rapporti fra Fortunato e Gobetti. Quando gli giunge «la sbalorditola dolentissima notizia» del primo arresto, nel febbraio '23, offre a Luigi Albertini di compiere un intervento perfino sul capo del governo: lui reticente, schivo e intrattabile. «Io non conosco alcuno de'presenti ministri, meno di tutti il Mussolini. Ma mi ascriverei ad onore di essere terzo, dopo Einaudi e Albertini». Non mancano note polemiche sul rapporto GobettiGramsci, sul filo-socialismo, che semmai era filo-comunismo, di Gobetti. «Egli sarebbe finito socialista»: dice una volta, e un'altra volta parla, con malizia pungente, di «un secondo caso Missiroli, quasi che noi peccassimo di poca confusione delle lingue». Ma la lezione morale di Gobetti è, anche agli occh i del Fortunato dissenziente, la più alta. E quando gli giunge la notizia della morte a Parigi, nel febbraio '26, annota con vena sconsolata: «Gli si vietò comunque di fare l'editore. Questa la nuova giovane Italia che i poeti vaticinarono. Di una cosa ringrazio Iddio: di morire senza figli e nipoti del mio nome». Quasi un ecclesiaste laico. Giovanni Spadolini

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