Gheddafi e l'«Operazione Ciad» di Igor Man

Gheddafi e l'«Operazione Ciad» UN IMMENSO PAESE DOVE L'UNICA RICCHEZZA SONO I CAMMELLI Gheddafi e l'«Operazione Ciad» Il capo libico ha fatto intervenire nel territorio confinante (grande quattro volte l'Italia, tre milioni e mezzo d'abitanti) la sua Legione Islamica - Dice di non aver mire espansionistiche, ma guarda alla fusione: «Il fratello presidente Gukuni si è rivolto a noi...» - Dietro i contrasti locali, un gigantesco gioco di interessi strategici - La Francia, tradizionale potenza protettrice, importa troppo petrolio dalla Libia e vi esporta troppi manufatti, per non fare buon viso a cattivo gioco DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE N'DJAMENA — Uno striscione bianco, ingiallito dal sole torrido, corre da un capo all'altro della strada in terra battuta. La scritta, dai caratteri azzurri, invita a béfè Gala, bière de luxe: è derisoria, a N'Djamena l'acquedotto non esiste più, frantumato dai colpi di obice; l'acqua, portata dagli aerei libici, è sottoposta a razionamento, una bottiglia di minerale o di aranciata Fanta o di pepsi sfiora al mercato nero le ventimila lire. Nel Ciad, Paese povero sul serio, grande quattro volte l'Italia, il reddito medio non supera le 130 mila lire prò capite l'anno. Tre milioni e messo di abitanti, 52 dialetti diversi, musulmani al Nord, cristiano-animisti al Sud, questo Paese che racchiude uno dei deserti più impenetrabili del mondo, vede l'86 per cento della popolazione attiva dedicarsi all'agricoltura, quasi sempre nomadica. Non ha sbocchi sul mare e nelle statistiche della produzione mondiale figura solo per un dato: è all'undicesimo posto nell'allevamento dei cammelli. Ma perché, allora, l'animoso •fratello-colonnello* (ama farsi chiamare così, Gheddafi) è intervenuto con tutto il peso delle sue armatissime truppe d'assalto, della sua terribile Legione Islamica? All'aeroporto di N'Djamena, il comandante del corpo di spedizione libico, il giovane colonnello Abdul Kebir — alto, baffuto, sorriso accattivante, beri-etto rosso, tenuta verde, stick sotto il braccio —, dice che i motivi dell'intervento hanno radici lontane, in quell'aiuto che il Ciad assicurò alle tribù libiche che rifiutavano la conquista italiana. «Noi viviamo nella libertà e vogliamo difendere la libertà degli altri popoli. Non ci muove desiderio di conquista ma volontà di pace. Certo, distruzioni son dappertutto, dell'aeroporto, ad esempio, non rimangono che la grande pista e questa costruzione dove ho sistemato il mio ufficio. Non si può ricostruire tutto dall'oggi al domani dopo sedici anni di terribile guerra civile, fomentata da interessi ambigui, ma faremo il possibile per aiutare i nostri fratelli ciadiani a ricostruire il loro sfortunato Paese». Le fazioni David Willey ha scritto sulÉ'Observer come sia impensabile che i libici possano, o vogliano, ritirarsi dal Ciad in un prevedibile futuro. «Rimarremo nel Ciad, risponde il colonnello Kebir, fino a quando vorrà il Presidente». Quale presidente? «Il presidente Gukuni, beninteso. Resteremo per concorrere all'opera di ricostruzione, di pacificazione. Sul piano militare si è già iniziato e prosegue il ritiro dei contingenti della Jamahiriya». Nell'incipienza del tramonto, fra le rovine della sala Vip, incontro il presidente Gukuni Ueddei. Se non fosse per la cupa violenza che ma¬ cera il suo volto nero, ornato da una barbetta elettrica, sembrerebbe uscito da uno di quei patetici, a volte strasianti, finali di Fellini: indossa il grand boubou, il vaporoso, biancoverde costume tradizionale del Ciad, da sotto la \ veste sbucano stinchi magri da camminatore inguainoti in calze d'argento e argentate son le babbucce di pelle leggera. Conferma che le truppe libiche sono intervenute «su nostra esplicita richiesta»; si ritireranno gradualmente allorché «le minacce alla pace saranno cadute». Parla in tono monocorde, a bassa voce, in un francese labiale ma quando gli domando se la fusione con la Libia rimanga un progetto valido, risponde secco, addirittura aspro: «Caro camarade si rilegga il comunicato dell'11 gennaio diffuso dal Gunt (Governo provvisorio di unione nazionale)». Si alza di scatto dal sedile di cemento sbreccato e se ne va in un turbinar di veli bianchi e verde acqua tosto dissolvendosi nell'oscurità dell'improvvisa notte tropicale. A questo punto è d'obbligo un po'di cronistoria, non fosse altro per spiegare l'irritazione dell'ascetico presidente, di fronte alla domanda volutamente provocatoria del camarade occidentale. Il 6 gennaio, dopo una visita di quattro giorni in Libia di Gukuni, Tripoli e N'Djamena annunciarono la decisione «di operare per realizzare l'unità tra i due Paesi; una unità delle masse, ove il potere, le ricchezze e le armi saran- no nelle mani del popolo e dei suoi strumenti: i congressi e i comitati popolari». Cinque giorni dopo il Gunt diramava un comunicato con cui si smentiva ogni progetto di fusione con la Libia. Preso in contropiede, a Tripoli, dall'euforia fusionistica di Gheddafi, una volta rientrato in patria Gukuni dovette subire una sorta di processo da parte di numerose delle fazioni (sono 22 in tutto) che formano il Gunt. Alla fine fu trovato un compromesso: risolviamo, prima, il problema della pacificazione nazionale: del tipo dei rapporti 'Speciali, con la Libia se ne parlerà dopo. «Canti e fiori» A dispetto delle apparenze, il colonello Gheddafi è un politico accorto. E' tutt'altro che pazzo — come, invece, da tempo va dicendo Sadat —, e niente affatto stupido: sicché a partire dal 12 gennaio blackout assoluto sulla 'fusione'. Il 28 marzo celebrando nella storica rada di Tobruk l'undicesimo anniversario della cacciata degli inglesi, il colonnello, in divisa kaki, bustina e stivaletti col tacco alto sei centimetri (per spiccar meglio sul palco) con la sua oratoria tutta a scatti spiega la differenza tra l'intervento libico in Ciad e quelli di marca colonialista. Gli imperialisti intervengono — afferma —, su richiesta di un governo fantoccio per piantar radici nel Paese che simulano di aiutare. «Al contrario l'esercito libico è intervenuto nel Ciad, su richiesta di quel governo legale, è stato accolto come una forza liberatrice, è arrivato e se ne sta andando salutato con canti e fiori. (...) Il governo del Ciad ha cercato di risolvere coi propri mezzi la guerra civile, poi si è rivolto invano ai Paesi africani limitrofi, infine ha chiesto aiuto alla Francia. Ma la Francia ha cercato di approfittare della situazione per darsi un alibi che le permettesse di tornare per sempre in Ciad. Al che il fratello Gukuni si è rivolto a noi e noi abbiamo agito immediatamente. Adesso nel Ciad, per la prima volta dopo circa venfanni. c'è pace e stabilità, le nostre truppe stanno smobilitando. Ma io denuncio di fronte al corpo diplomatico qui presente le responsabilità della malefica "triplice alleanza": Israele, Egitto, Sudan: minacciano, parlano di guerra, incitano all'assassinio (il presidente sudanese Nimeiri, in una recente intervista, ha detto che l'unico modo di risolvere la situazione è quello di uccidere Gheddafi, n.d.rj. Sappiano i nemici della pace che noi possiamo interrompere il ritiro delle truppe in qualsiasi momento ovvero ritornare di nuovo a combattere per la libertà del Ciad». E qui colpo di scena: mentre il colonnello proclama di non avere mire espansionistiche, che il Ciad «è un Paese libero e autonomo, sovrano», alle sue spalle dalla delegazione ciadiana si grida: «Siamo un popolo solo, non due popoli!». Lo slogan viene ripreso dalla folla sì che il colonnello, radioso, rivolgendosi ai diplomatici in tribuna grida: «Che gli ambasciatori ascoltino: è il popolo che vuole l'unità! ». E' una piccola prova generale del referendum che si vuole debba seguire le libere elezioni generali promesse da Gukuni per il gennaio 1982? Il 30 marzo, a Bengasi, l'argomento viene riproposto al colonnello, nel corso della conferenza stampa concessa a un gruppo di giornalisti italiani. Ma lui aggira le domande insidiose limitandosi a motivare le ragioni dell'intervento: «L'infezione del Ciad, dice, minacciava di contagiare tutti i Paesi africani circostanti. Abbiamo aiutato il governo legale del Ciad a evitare il pericolo e in questo modo abbiamo scongiurato il ritorno del colonialismo ». Giscard II 28 settembre 1980 Gheddafi dichiarò che il Ciad costituiva uno 'Spazio vitale* per la Libia. Nessuno si scompose. Il 13 dicembre scorso, alla vigilia dello scontro finale a N'Djamena, un comunicato dell'Eliseo avvertiva che «la Francia è gravemente preoccupata del nuovo deterioramento della situazione nel Ciad risultante dall'intervento di elementi stranieri. Mette in guardia dal proseguimento di questo intervento che minaccia la stabilità della regione». Era un monito blando, affatto formale. in cui pudicamente si evitava di menzionare la Libia. L'ultimo contingente francese in Ciad era stato ritirato nel maggio, un contro-intervento di 'Giscard l'Africano*, giustificabile soltanto con la problematica difesa dell'incolumità dei cittadini francesi, appariva assai poco probabile. Disco verde, dunque, per la Libia. La Francia si rifa viva l'8 gennaio, dopo il comunicato sulla 'fusione*. Il Quay d'Orsay comunica che «la Francia condanna l'accordo di Tripoli, in contrasto con quegli accordi di Lagos che la stessa Libia ha sottoscritto... e rivela ambizioni che costituiscono una minaccia per la sicurezza dell'Africa». Immediata replica di Tripoli che definisce «inaccettabili» le argomentazioni del Quay d'Orsay anche perché «l'unità jamahiriyana tra i popoli di Libia e Ciad» significa, in fatto, apertura dei confini tra i due Paesi e non costituisce una fusione politica. Segue un duro monito: «Qualsiasi posizione ostile eventualmente adottata da parte francese contro la Jamahiriya libica o il Ciad avrà conseguenze gravi per gli interessi di Parigi nello Stato libico, nel mondo arabo e in Africa». L'Eliseo reagisce rafforzando i contingenti francesi nel Centrafrica. nel Gabon, nel Senegal, nella Costa d'Avorio, a Gibuti e tutto finisce lì. Gli interessi francesi in Libia fanno premio sull'-africanismo* di Giscard (sema contare che Gheddafi sembra sappia parecchio sugli imbarazzanti rapporti tra il can¬ nibale ex imperatore Bokassa e lo stesso Giscard). La Francia esporta armi e tecnologia elettronica in Libia. L'Elf-Aquitaine, la società francese del petrolio, estrae presso la frontiera con la Tunisia e a Marsa el Brega 750 mila tonnellate di greggio l'anno, di cui 200 mila affluiscono nelle raffinerie francesi. E, proprio il 6 gennaio, l'Elf-Aquitaine otteneva cinque nuove concessioni petrolifere nel golfo di Sirte e ad Haviada (quest'ultimo accordo è in sospeso dopo lo scandalo che ne è nato in Francia). Infine in Libia lavorano tremila tecnici francesi. Insomma, gli affari sono affari. Accertati i motivi dell'immobilismo francese, rimane da rispondere alla domanda più inquietante: per chi corre Gheddafi? Per conto proprio ovvero sta tirando la volata all'Vrss? «Corre per Breznev», rispondono al Cairo facendo rilevare la consonanza fra la tattica di Gheddafi e la strategia dell'Urss in Africa. Ma, come osserva René Backmann (cfr. Le Nouvel Observateur, 22-12-80), le cose non sono così semplici. E' vero che il colonnello è con Mosca ma lo è soprattutto perché gli Stati Uniti sono con Israele, e Israele è il grande incubo di Gheddafi. Rimane il fatto che il colonnello si è preoccupato di diversificare il suo poderoso arsenale bellico proprio per non dipendere da un solo fornitore: l'Urss. E, poi: Mosca non ha alcun contratto civile in Libia mentre Tripoli vende il 40 per cento del suo petrolio all'America di cui è la terza fornitrice: V80 per cento delle importazioni libiche vengono dall'Occidente (l'Italia figura al primo posto). E se corresse per se stesso nel segno della missione panislamica che pretende di aver ereditato da Nasser? Per realizzare il sogno della saldatura fra mondo arabo e mondo africano sotto la bandiera verde del Profeta di cui si ritiene un 'inviato*? Igor Man