Il fantastico «match» che umiliò i nazisti di Luciano Curino

Il fantastico «match» che umiliò i nazisti JOE LOUIS, PUGILE DEL SECOLO Il fantastico «match» che umiliò i nazisti Due mesi fa erano andati da Joe Louis a dirgli che il Consiglio mondiale della boxe l'aveva proclamato «pugile del secolo». Era su una sedia a rotelle, aveva il cuore malandato. Non aveva mostrato gioia, pareva indifferente. «Ah sì? Bene» aveva risposto, ma senza entusiasmo. Era anzi triste. Lo era da parecchi anni, senza un sorriso. Una volta gli avevano domandato perché un uomo famoso come lui fosse così triste, aveva risposto: «La solitudine, molto spesso, è più forte della gloria». Sembrava strano che proprio Joe Louis parlasse di solitudine. In un'epoca che rapidamente consuma i suoi miti, quello di Louis era rimasto intatto. Al Madison Square Garden, nel 1968, per il combattimento Benvenuti-Griffith, erano salite sul ring le vecchie glorie Dempsey, Louis, Robinson e Marciano: l'applauso più lungo e fragoroso era andato a Louis. In migliaia di bar. da costa a costa, erano esposte le sue vecchie fotografie, ovunque andasse era riconosciuto e acclamato, anche dai ragazzini. A Las Vegas, due anni fa, millecinquecento persone avevano partecipato a un banchetto in suo onore. Ma Louis diceva che si può essere soli anche tra la folla e nella popolarità, che la solitudine te la porti dentro forse fin dalla nascita, ed è per sfuggirle, o per una rivincita, che molti combattono e qualcuno diventa campione. Joe Louis Barrow diceva che puoi ereditarla, la solitudine, se ti capita di nascere in una capanna illuminata ad acetilene di Lafayette, che è tra i campi di cotone nella «cintura nera» dell'Alabama dove si è più isolati che in qualsiasi altro posto, e la madre è negra, il padre della tribù dei Cherokee, indiani taciturni e solitari. La sua storia è esattamente quella che uno si immagina quando si parla dei campioni del pugilato. L'infanzia in una famiglia che tira avanti con i sussidi, a dodici anni porta il ghiaccio nelle case, poi altri mestieri prima di scegliere quello più duro del mondo. la boxe, una sgangherata palestra di Detroit in un viavai di falliti e di illusi, la prima borsa di 52 dollari e appena ha denaro sufficiente affitta una casa per la madre. E' appunto il titolo che piace ai rotocalchi: «Con i primi guadagni regalò una casa alla mamma». Presto è soprannominato Brown Bomber, il bombardiere nero. Gli esperti lo definiscono un tecnico-devastatore, perché quando accusa un colpo subito attacca con «una interminabile serie di pugni che nessuno riesce ad assorbire». Ne / più grandi. Lamberto Artidi afferma che contro il campione mondiale dei mediomassimi, John Henry Lewis, il «bombardiere» nei due minuti 29 secondi che durò il combattimento «mise a segno un totale di 39 pugni di cui il destri micidiali contro 3 del suo avversario». C'è un combattimento di Joe Louis che la generazione dei cinquantenni non ha dimenticato, e oggi la notizia della morte del campione rinverdisce questo ricordo, che è importante, perché quel match non fu soltanto un avvenimento sportivo. Bene, è l'incontro con Schmeling che è indimenticabile. Furono due. anzi, gli incontri con Schmeling. e il primo Louis lo perse. Max Schmeling. che era stato due volte campione mondiale dei massi¬ mi, era detto l'«ulano tedesco». Nel 1936 andò a New York per battersi con Louis e annunciò: «Farò vedere al negro chi è oggi l'uomo più forte del mondo». Fu arrogante e pronunciò la parola negro con disprezzo. Vinse per k.o. alla dodicesima ripresa (la prima sconfitta di Louis). Il perverso significato di quel combattimento, che non era valido per il titolo mondiale, gli americani, il mondo, lo capirono appena l'arbitro ebbe finito di contare Louis. Il tedesco indossò la vestaglia di seta con la svastica sulla schiena e salutò il pubblico: «Heil Hitler». In pochi minuti gli arrivarono nel camerino i telegrammi di tutti i capi nazisti. Il giorno dopo i giornali tedeschi avevano in prima pagina la sua fotografia e dichiarazioni di Hitler, di Goebbels, di Goering, e grossi titoli che esaltavano la superiorità della razza ariana. Il secondo incontro, quello che nessuno ha dimenticato, due anni dopo (nel frattempo Louis è diventato campione del mondo battendo Jimmy Braddock, e il vecchio Braddock ha commentato: «La giovinezza ha i suoi diritti. Il mio titolo è in saldi pugni»). Schmeling ritorna a New York, questa volta per togliere la corona mondiale al negro che ha facilmente umiliato una volta. E' il 1938 e i tedeschi parlano come padroni duri. Hitler è detestato, lo sono i nazisti e anche i pugili che indossano una vestaglia di seta con la svastica. Trepida l'America, non soltanto l'America. «)oe, abbiamo bisogno di muscoli come i tuoi», dice a Louis il presidente Roosevelt. Ai giornalisti che vanno a intervistarlo, Schmeling dice che appartiene a una razza superiore e lo dimostrerà il 22 giugno. Che è la calda sera del combattimento. Louis racconterà così il suo match: «Subito tentò un destro alla mia testa, ma schivai. Colpii a mia volta di sinistro ed allora abbassò la guardia». Un destro al volto dell'u¬ lano tedesco che è scaraven ta to alle corde, le ginocchia tagliate. «Lo colsi mentre si staccava dalle funi toccandolo violentemente al corpo. Traballava. Intanto pensavo: "Cosa ne dici di questi, signor razza superiore?". Ero felice che soffrisse, era quello che volevo». Louis insiste con due terrificanti destri al corpo, li doppia con un colpo alla mascella e forse non ha mai colpito tanto forte. Schmeling va giù qualche secondo ed è di nuovo atterrato con un uncino sinistro, replicato da uno destro. «Quando si rialzò lo finii con un destro alla mascella». I secondi del tedesco sono atterriti, isterici, goffi, gettano un asciugamano sul ring ma l'arbitro glielo ributta con una pedata, continuando a contare. «Schmeling tentò di rialzarsi ma non riuscì a staccarsi dal pavimento». Il combattimento è durato due minuti e 4 secondi. Distrutto, il tedesco adesso urla di dolore. Quella notte quindici milioni di negri sono nelle strade con trombe e tamburi, cantano ballano si abbracciano, bevono e ridono, e una volta tanto anche i bianchi sono con loro nei cortei, ad Harlem, a Detroit, a Filadelfia, in tutte le città grandi e piccole. «Quella fu una gran notte» ricorderà Louis, e dirà: «So che la mia vittoria ha reso felice tanta gente anche fuori dell'America, e per questo è la più bella. So che i tedeschi, quando si resero conto che Schmeling avrebbe perso, sospesero le trasmissioni ad onda corta per Berlino». Fu quella una vittoria che letteralmente esaltò un Paese, proprio perché tutti capirono che non era soltanto un fatto sportivo, e Louis, come scriverà poi un giornalista americano, «fu l'idolo del quale tanta gente a quel tempo aveva bisogno». Eppure, se guardiamo le fotografie di quel giorno fantastico e le fotografie di tante altre vittorie (in sedici anni affrontò 71 avversari, conquistando 68 vittorie di cui 58 per k.o.), raramente Louis sorride. Oppure ha il sorriso dell'uomo i cui pensieri non sorridono. E' tra la folla, ma in qualche modo appare come solo. Lasciato il ring era un mister dall'aria buona, corpulento, appesantito. Come ci si immagina debbano sempre essere le storie dei pugili, aveva sperperato nella prodigalità e negli affari sballati i tre o quattro miliardi guadagnati nella sua carriera, sempre tallonato dal fisco, ed ora viveva grazie alla munificenza di Frank Sinatra. suo estimatore. Prima di essere ridotto alla carrozzella, cercava di restare come poteva nel suo vecchio mondo, andando nelle palestre e vedere i giovani, ai combattimenti vicini a casa, ospite d'onore ai match mondiali. Sempre, lo ricordano, con la stessa giacca a grossi scacchi grigi e bianchi, la cravatta nera, gli stessi pantaloni molto corti e scuri. E sempre con un'aria mesta, triste. Soltanto quando lo speaker lo annunciava e saliva sul ring nella luce dei riflettori sorrideva al pubblico, ma con quel sorriso forzato di chi è irrimediabilmente solo. Luciano Curino Il clamoroso k.o. inflitto da Joe Louis a Max Schmeling