De Gasperi, statista tradito dai suoi di Vittorio Gorresio

De Gasperi, statista tradito dai suoi A CENTO ANNI DALLA NASCITA: LA FIGURA, L'OPERA POLITICA, IL TRAMONTO De Gasperi, statista tradito dai suoi E' il solo grande uomo di Stato che l'Italia abbia avuto dopo il fascismo - Nel 1953 la de gli si rivoltò contro perché aveva affermato la supremazia del governo nei confronti del partito - «Io credevo di rappresentare l'Italia, invece non rappresento neppure il mio partito» - La transigente tolleranza agli inizi del regime mussolini ano - I rapporti col Vaticano - Quando nel '47 estromise i comunisti dalla compagine ministeriale Acento anni dalla nascita di Da Gasperi (3 aprile 1881, a Pieve Tesino in Val Sugana) ripensare alla sua figura e alla sua opera è una tentazione cui è difficile sottrarsi, anche se l'uso di celebrare certe ricorrenze è spesso niente più che indulgere ad appuntamenti con la cronologia. Ma questa volta l'occasione appare buona come possibilità di valutare un'esperienza politica compiuta in una lunga varietà di tempi e trarne quindi insegnamenti ancora valevoli alla luce di oggi, a ventisette anni dalla scomparsa (29 agosto 1954, a Sella di Val Sugana) di questo insigne protagonista della nostra storia recente. Di lui si è detto in vita e dopo morte una somma di bene che pareggia a stento il molto male professato dai contestatori, che sulla scorta dei suoi scritti e di assai varie testimonianze ce lo presentano come un retrivo. Negli anni della giovinezza, per esempio. De Gasperi avrebbe giudicato «bambinesca» l'ammirazione che gli intellettuali di Trento suoi contemporanei tributavano a Kant. In politica era un triplicista convinto, e quando venne a Roma alla vigilia del nostro intervento nella prima guerra mondiale per incontrarsi con Sonnino insistette con lui perché in nessun caso il Trentino fosse integrato nell'ordine amministrativo del resto d'Italia. Nella primavera del 1921 — e vale a dire in piena effervescenza squadristica — scrisse che esistono situazioni «in cui la violenza, anche se assume le apparenze di aggressione, è in realtà una violenza difensiva, cioè legittima». Salito al potere il fascismo, non perse la fiducia in una prossima normalizzazione credendo di poter notare, ancora nel febbraio del 1923, una «graduale ma sensibile evoluzione verso le forme e lo spirito della costituzione». Era pertanto giusto collaborare con i fascisti, impegnati a rimettere ordine nello Stato: «Se si può, se si è richiesti, non è doveroso aiutarli in tale sforzo immane?». La cacciata di don Sturzo in esilio doveva poi mostrare il fallimento della linea di transigente tolleranza del partito cattolico popolare verso il fascismo, e in verità De Gasperi non mancò di compiere autocritica, riconoscendo nell'ottobre del 1924 di essere caduto nel tranello di pensare che esistesse «una via da percorrere per qualche tratto assieme» al fascismo. Ciò tuttavia non gli impedì, nel 1928, di scoprire nella carta del lavoro una benefica derivazione dalla famosa enciclica Rerum novarum di Leone XELI. «L'idea corporativa — ebbe a scrivere nei suoi commenti quindicinali su L'Illustrazione vaticana — fu feconda in terra d'Italia (...). Felicitiamoci intanto che essa abbia vita, perchè con ciò l'Italia raggiunge, anzi supera, parecchie nazioni». Al momento della conciliazione ottenuta da Mussolini con la Santa Sede non esitò a dichiarare che ammirava la sua abilità: «Se una dittatura è necessaria, egli è certo il dittatore capace». Ma questa ammirazione non andava disgiunta da un sentimento di amarezza per quello che gli sembrava un indebito cedimento della Chiesa di fronte a prospettive di guadagni materiali. Non avrebbe voluto che nel patto di conciliazione fossero inserite clausole finanziarie a indennizzo di perdite subite dalla Santa Sede, e difatti scriveva a don Simone Weber, priore di San Martino in Trento, il 21 gennaio 1929, tre settimane prima della firma dei Patti Lateranensi: «L'unico guaio sarebbe se il Vaticano accettasse dei milioni; nella presente situazione sarebbe un cattivo pretesto! Ma non lo faranno, anche se fosse vera l'offerta!». Ma invece li accettarono, e De Gasperi ne fu profondamente turbato nella sua coscienza di cattolico trentino integro e ingenuo. Il Concordato Proprio perché cattolico, però, si rassegnava all'obbedienza e il giorno della firma dei Patti Lateranensi scrisse al suo amico don Giulio Delugan una lettera mesta quanto edificante: «Siate contenti anche voi, perché è la Provvidenza che ci ha messo la mano. Se non mette la mano qui, in che cosa volete che la metta?». Puntando molto più sul trattato di conciliazione che sul concordato, vedeva il primo come una liberazione per la Chiesa e una fortuna per l'Italia: «Non si poteva esitare, e credo che avrebbe firmato, se fosse stato Papa, anche don Sturzo». «Certo, ne guadagna il regime, si rinforza cioè la dittatura che dovrebbe pur essere un regime transitorio, ed è certo che nascere disgraziati è una di¬ sgrazia; ma come figli della Chiesa dobbiamo gioire». A onore di De Gasperi, comunque, va detto che la sua soddisfazione era tutta per il trattato di conciliazione che chiudeva la «questione romana», mentre la politica concordataria lo lasciava perplesso. Cominciava a irridere i troppo facili entusiasmi: «Poiché nel trattato si discorre di miliardi, i temporalisti più accesi, compresi i gesuiti, portano intorno una faccia trionfale (...). Contenti i clerico-papalini, contenti i fascisti, contenti i massoni. Mussolini è trionfante». Lui stesso in ogni modo si dibatteva tra molte gravi contraddizioni. Quando fu indetto dal regime il plebiscito del 1929 egli dette ai cattolici il consiglio di votare «sì»: «Le circostanze sono più forti di ogni suggerimento, e a chi si appressa alle urne le circostanze consigliano di votare in favore». Di fronte al nazismo la sua opposizione fu, per così dire, teologale: lo turbava il neopaganesimo di quella dottrina, ma un eventuale nazismo «moderato» (con Hitler ma senza Rosenberg) lo avrebbe indotto a un diverso giudizio. Gli sarebbe piaciuto d'altra parte che i tedeschi vincessero in Russia. Un giorno gli fu detto per errore che era caduta Mosca, mentre di fatto si trattava della ben più modesta cittadina di Nicolajev, come poi accertò: «Onde avendo goduto per la prima notizia non trovai modo di impressionarmi per la seconda». Crollato il fascismo, nel 1943 si attestò su posizioni attendiste, salvo auspicare una soluzione integrista per il futuro italiano: la democrazia non sarebbe stata democrazia se non fosse stata cattolica, e la giustizia sociale non si sarebbe realizzata se non sulle basi della dottrina di Giuseppe TonioIo, l'economista corporativo della scuola etico-cristiana. In un brutto film di Roberto Rossellini si vede De Gasperi accarezzare un volume delle opere di Toniolo e pensierosamente interrogare le sue donne, la consorte e le figlie: «Domando perché mai non abbia avuto in Italia il successo che merita». Si tratta di un film brutto, come ho avvertito, ma su questo punto il suo valore è docu- mentano, e d'altra parte la battaglia che doveva sostenere in quegli anni difficili contro il comunismo non lasciava a De Gasperi margini di scelta. Bisognava attestarsi o di là o di qua secondo la logica inesorabile della guerra fredda allora imperversante, e su due piani essenzialmente è da apprezzare la buona tenuta di De Gasperi. In quello economico, quasi a tradire i suoi convincimenti cattolico-corporativi, egli scelse la linea dell'economia liberale di mercato sostenuta da Einaudi quale più valido strumento per sbarrare la strada al marxismo, e in politica estera ebbe il merito di «inventare» per l'Italia una politica nettamente occidentale, sia pure al prezzo di una crisi interna che poteva essere pericolosa. Si può anche credere che nella grande decisione da lui presa nel 1947 di estromettere i comunisti dal governo non furono determinanti le asserite pressioni americane. Pier Giorgio Zunino che ha curato una tendenziosa antologia degli scritti politici di De Gasperi per l'editore Feltrinelli (Milano, 1979) attribuisce a De Gasperi l'iniziativa di avere chiesto lui agli americani di sostenerlo in quel passo difficile. In più, Zunino gli contesta la così spesso celebrata sua equanimità nei confronti dei laici. Vecchio cattolico trentino. De Gasperi sarebbe stato invece mosso da una forte passione per il suo partito: però fu proprio questo che un brutto giorno gli si rivoltò contro, solo perché De Gasperi da presidente del Consiglio aveva affermato la supremazia del governo nei confronti del partito. Accadde una sera di ottobre del 1953. Il suo ottavo gabinetto era stato battuto in luglio dopo il mancato scatto della cosiddetta legge truffa elettorale, e onestamente, umilmente. De Gasperi si dichiarò a disposizione del partito perché fossero ancora messi a frutto il suo prestigio e le sue capacità nelle funzioni di segretario politico de. Si immaginava che l'offerta sarebbe stata accolta con gratitudine, tanto era candido. Ma dal consiglio nazionale democristiano ottenne solo 42 voti favorevoli, contro 22 schede bianche: un errore politico, oltre che un affronto personale. Nel suo bel libro De Gasperi uomo solo Maria Ro¬ mana così descrive il ritorno a casa del padre sconfitto quella sera: «Mio padre aveva il viso pallidissimo». La moglie e le figlie gli vanno incontro: «Abbiamo acceso il fuoco questa sera, papà, fa freddo». «Bene, rispose lui. ne avevo proprio bisogno». Si piegò sulla poltrona lentamente, stese le gambe sullo sgabello, si lasciò infilare le pantofole. Se il quadro di famiglia è sereno, la riflessione dell'uomo politico è di eccezionale amarezza: «lo credevo di rappresentare l'Italia e invece non rappresento neppure il mio partito». Era la sua fine, penosa, sancita in un modo che non fa onore alla de. e in specie agli uomini che allora la guidavano lottando per la successione di De Gasperi. e che da allora nonostante tutte le successive autoproclamazioni di eredi reverenti avrebbero distorto la condotta di un'azione politica non più riconoscibile come continuità dell'insegnamento degasperiano. I risultati ne sono evidenti oggigiorno, e si deve rimpiangere che un uomo di Stato del suo merito, il solo che l'Italia abbia avuto in sorte dopo la caduta del fascismo, non abbia poi trasmesso eredità di prosecutori e imitatori fedeli. Personalmente integerrimo, ebbe forse a mostrare qualche tollerante indulgenza per le colpe altrui, fino a lasciare che fossero ripristinate le posizioni degli ex fascisti, sicché vedemmo tutti i vecchi uomini sopravissuti al trapasso fra i due regimi ritornare ai posti di prima, alle medesime funzioni e responsabilità nell'amministrazione, nell'insegnamento, nella magistratura, nei corpi separati dello Stato. Egli sapeva che molti di loro avevano servito in malafede la causa dell'antilibertà, ma nel suo pessimismo di cattolico immaginava forse che con pari malafede avrebbero potuto dedicarsi alla causa della libertà. Affidarsi alla malafede come a strumento insostituibile per operare politicamente non è un criterio da accettare. Egli stesso doveva riconoscerlo in forma di ulteriore autocritica un pomeriggio del giugno 1952 quando ricevette Giulio Debenedetti allora direttore della Stampa. Ero presente anch'io e ho conservato appunti della conversazione di quel giorno. «Non mi sarei mai aspettato che accadesse quello che è accaduto — De Gasperi ci disse —. // giorno che ho fatto un discorso a Reggio Calabria e i fascisti mi hanno impedito di parlare ho avuto una specie di rivelazione. Mi è stato detto che avevano fatto venire squadre di fascisti dalla provincia. Indubbiamente, c'erano. Mia moglie, quando l'ho raggiunta alla stazione, piangeva. E ' venuto il questore a mettersi a mia disposizione, e gli ho detto che non avevo bisogno di nulla: che andasse in piazza, piuttosto, e la facesse sgomberare». Gli dissi di aver letto sui giornali che il questore era stato repubblichino, e De Gasperi sospirò: «Non lo sapevo». «Aiutatemi» Anche altre cose lo stupivano: «Non mi dimenticherò mai l'impressione che ho avuto nel sapere che il giorno stesso in cui parlavo a Roma in Piazza del Popolo, contemporaneamente Graziani parlava al Colosseo. Anche qui siamo stati colti di sorpresa. Ma che volete? Il commissario di pubblica sicurezza che si trova ad assistere a un comizio di Graziani ha l'istinto di mettersi sugli attenti e chiamarlo signor maresciallo». Ricordo che a questo punto Debenedetti, laico e liberale, gli domandò quali fossero i suoi rapporti di capo del governo con l'invadente papa Pacelli, del quale si lamentavano le troppe intromissioni negli affari dello Stato italiano. «Col Papa — rispose De Gasperi — ho parlato due volte e ho trovato in lui un uomo molto intelligente e pieno di comprensione. Adesso molti mi vanno dicendo che io dovrei parlargli ancora facendomi ricevere da lui, ma io esito perché non sono sicuro di quello che mi direbbe, e sono invece sicuro che dovrei comunque ubbidirgli, e come cattolico dovrei piegare la testa e quindi magari risolvermi a ritirarmi se la mia coscienza fosse turbata. Ritirarmi, ma è possibile? Chi verrebbe al mio posto? Aiutatemi voi che siete liberali». Una pausa breve a questo punto, poi uno sfogo di protesta o di speranza: «Mi hanno detto che il Papa sta girando per le sale del Vaticano con la testa fra le mani e dice lamentandosi: mi hanno ingannato, mi hanno ingannato. Ma chi lo ha ingannato — postillò De Gasperi ridestandosi cattolico trentino —. chi poteva ingannarlo se lui stesso non lo avesse voluto?». Ci sono cattolici la cui coscienza religiosa non oscura la coscienza civile. Ha scritto il laico Leo Valiani che per De Gasperi l'idea dello Stato non poteva che essere cattolica, ma che non di meno egli era capace di «mettere tale Stato al di sopra del proprio partito e degli interessi sociali che esso rappresenta» (del che. come ho già detto, fu punito). Anche Benedetto Croce non trovava in De Gasperi motivi di inconciliabilità politica tra la fede e l'azione, e gli scrisse difatti con estrema finezza: «Che Dio ti aiuti. Anche io credo a mio modo al Dio, a quel Dio che a tutti è Giove, come diceva Torquato Tasso. Che Dio ti aiuti nella buona volontà di servire l'Italia». Vittorio Gorresio Londra, giugno 1953. De Gasperi è accolto da Churchill davanti al numero 10 di Downing Strett