Socialismo senza futuro? di Mario Pirani

Socialismo senza futuro? COLONIA: TESTE D'UOVO DI MEZZA EUROPA A CONFRONTO Socialismo senza futuro? Alla Fondazione Ebert socialisti e socialdemocratici hanno discusso come raggiungere «una qualità dello sviluppo» - Pochi difendono le idee keynesiane - Alcuni ripiegano su un socialismo municipale Ma né questo né altri progetti sono legati a un movimento reale - E* un viaggio a ritroso verso l'Utopia? DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE COLONIA — ..I nostri teorici, legati alle tradizioni filosofiche dell'idealismo tedesco, si sono rifiutati fino a oggi di ammettere ciò che chiunque ha capito da tempo: che non c'è nessuno spirito del mondo: che non ci sono leggi della storia: che anche la lotta di classe è un processo spontaneo, che nessuna avanguardia può pianificare e guidare: che l'evoluzione sociale come quella naturale non conosce nessun soggetto e pertanto è imprevedibile: che noi quando agiamo politicamente non raggiungiamo mai quello che ci siamo proposti, ma qualcosa d'altro che non potevamo nemmeno immaginare: che in questo sta la ragione di tutte le nostre utopie positive. I progetti del XIX secolo sono stati falsificati tutti quanti dalla storia del XX secolo». Questa affermazione di Hans Magnus Emensberger, uno dei più spregiudicati intellettuali della sinistra tede- sca. potrebbe ben figurare come distico introduttivo del dibattito che per due giorni la Fondazione Ebert ha promosso nella sua scuola di formazione, nel inllaggio di Bergneustadt a 80 chilometri da Colonia, con la partecipazione delle migliori teste d'uovo socialiste e socialdemocratiche di mezza Europa. L'ordine del giorno — «Per una nuova qualità dello sviluppo» — sfociava in un interrogativo più di fondo: esiste ancora una prospettiva politica, ideale e pratica, della sinistra europea? O. come ha confessato l'austriaco Egon Matzner. un teorico molto vicino al cancelliere Kreisky, «si è annebbiata in noi la percezione della realtà. Il concetto stesso di sviluppo è entrato in crisi, l'espansione generale non può essere più accettata come misura della crescita. Occorrono altri parametri»? Ma quali? Le risposte appaiono ancora contrastanti, ispirate al volontaristico schema di un indefinito, nuovo progetto di sinluppo in cui potersi riconoscere, capace, a un tempo, di rinnovare la vecchia tradizione riformista delle grandi socialdemocrazie europee e le attese messianiche, sempre frustrate, del socialismo latino. Pochi i difensori delle superate ricette keynesiane (il professor Timm dell'università di Acquisgrana e il vecchio premio Nobel, l'olandese Timbergen, punto di riferimento dei programmatori di tutta Europa negli Anni Sessanta). * * Gli altri si avventurano, timorosi e incerti, verso nuove prospettive. E in questo senso hanno parlato gli ex Jusos, oggi integrati nella sinistra della Spd (il partito socialdemocratico tedesco), dalla popolare Heidi la rossa, divenuta ormai l'onorevole Heidemarie Wieczorek-Zeul a Johano Strasser, già leader carismatico del movimento giovanile e oggi professore a Berlino, a Freimut Duve, deputato di Amburgo, leader della sinistra del partito di Schmidt. cosi hanno parlato gli ideologi di Mitterrand, Jacques Delors e Gilles Martinet, i sindacalisti della Cfdt. Moreau e Vanlereberghe, Didò della Cgil, il capogruppo socialista al Parlamento di Madrid. Enrique. Baron, il nostro Giorgio Ruffolo, il professor Orio Giarini del Club di Roma e numerosi altri. Dalle molteplici esperienze e da fonti culturali che hanno spesso in comune solo l'etichetta politica di origine, è emersa però una diffusa consapevolezza: i parametri su cui si sono retti per mezzo secolo l'azione e il pensiero socialista appaiono oggi inservibili. Essi avevano come schema basilare la crescita continua del prodotto nazionale accompagnata da una più equa ripartizione del reddito e, coinè punto d'arrivo, il Welfare State — lo Stato del benessere — e la piena occupazione Negli Anni 70 i presupposti di tutto questo sono cominciati a venir meno. La crisi petrolifera si è rivelata non come uno squilibrio grave ma riassorbibile, quanto come una tassa progressiva e inarrestabile che erode i margini di profitto, destinati prima ad alimentare la spartizione del reddito. L'energia sostitutiva a immediata disposizione, quella nucleare, sì scontra con il vincolo ecologico e non a caso, proprio mentre si svolgeva il seminario, giungevano le notizie sulle elezioni comunali a Francoforte e in altre città, tradizionali feudi socialisti, dove la sia pur moderata e transitoria scelta nucleare della Spd veniva «punita» con un crollo di 14 punti, tutti a favore delle liste «verdi» dei difensori della na¬ tura. Un risultato politico giudicato «catastrofico», non solo perché porta alla fine di una tradizionale egemonia municipale, ma perché blocca la speranza di poter recuperare per questa strada il margine di reddito sottratto dagli sceicchi. Un altro assioma — l'uso della domanda pubblica, la politica di deficit spending secondo la ricetta keynesiana — appare, d'altra parte, frantumato dall'inflazione, dallo squilibrio sempre più grave del deficit pubblico, dalla fine di un sistema monetario internazionale capace di assicurare certezze di comportamento finanziario. Ma è possibile ridimensionare le attese e le domande collettive, alimentate dal Welfare State, senza una pericolosa diminuzione del tasso di democrazia, senza una svolta autoritaria che non può certo essere gestita dai socialisti? Un terzo interrogativo angoscioso è stato al centro del seminario della fondazione Ebert e lo hanno sollevato uno dei ministri-ombra dì un eventuale governo Mitterrand. Jacques Delors, e il politologo socialista francese Gilles Martinet. L'Europa, è stato detto, è in ritardo in una guerra economica che vede il Giappone sempre più minaccioso e spostato in avanti di almeno dieci anni. Se l'America risponde con il tentativo di reindustrializzazione, grazie al suo potenziale economico, sotto le bandiere del reaganismo e del neoliberismo, l'Europa appare disarmata e incerta di fronte all'altro fenomeno dirompente, oltre a quello petrolifero, e cioè allo spostarsi del baricentro dell'aggressività capitalistica dall'Atlantico al Pacifico. Siamo in piena rivoluzione tecnologica ma cerchiamo di non vederla, di rimuoverla attraverso una specie di autocensura collettiva che coinvolge tutti, sindacati, partiti, economisti. Mentre la microelettronica invade ogni campo, dalle macchine utensili alle auto (in un'auto dove prima occorrevano 150 metri di cavi oggi basta una scatoletta miniaturizzata che si butta quando si guasta), la «burotica» (la trasformazione elettronica degli uffici), la telematica (l'utilizzazione della tv congiunta all'elettronica che può decentrare a domicilio l'educazione, una parte notevole delle attività produttive, la lettura dei giornali, la domanda collettiva di informazioni e di cultura attraverso le banche-dati consultate telefonicamente) sono tutti filoni di nuove tecnologie che impongono anche all'Europa drastiche scelte. 0 restare tagliati fuori dalla competizione internazionale o intaccare gravemente l'occupazione (uno studio tedesco calcola che mentre 100 miliardi dì marchi investiti nella trasformazione industriale creavano 2 milioni di posti di lavoro dal '55 al '60, ne sopprimevano invece 500 mila tra il 70 e il 75, tendenza che sarebbe oggi ancor più agqravata). * * Ma può la sinistra rinunciare all'obbiettivo del pieno impiego? Nei francesi e negli italiani, è sembrato prevalere il gusto della sfida, accompagnato dall'ipotesi non solo di una diminuzione dell'orario di lavoro, ma di una suddivisione del lavoro tra occupati e disoccupati, con una diversa concezione del tempo libero (educazione permanente per tutta la vita), la rivalutazione del tempo come elemento di dinamica sociale e individuale con la rottura dei sincronismi orari introdotti dai modi capitalistici di produzione, attraverso scelte flessibili che modulino con maggiore libertà la durata del lavoro e la sua remunerazione. 1 tedeschi, di contro, si la- sciano prendere dall'ipotesi regressiva, apparentemente più concreta, di un rifiuto della microelettronica (non introdurla, ad esempio, nelle macchine utensili) accompagnata dalla richiesta di un neo protezionismo che eviti i contraccolpi commerciali. Ma che senso ha una simile idea quando si ha la ventura di essere uno dei maggiori partner degli scambi internazionali e la sopravvivenza è legata alle esportazioni? La risposta si fa incerta e fumosa. Johano Strasser, l'ex leader degli Jusos. ripiega sull'idea di un socialismo municipale (decentramento produttivo, piccole imprese gestite in compartecipazione tra personale e abitanti, grandi imprese obbligate a tener conto di una serie di vincoli ecologici, sociali, economici). Sembra un revival tra le esperienze olivettiane di Comunità negli Anni SOela dottrina sociale cristiana. Non a caso Strasser confessa che «il principio classico dell'insegnamento sociale cattolico può perfettamente, in una interpretazione moderna, servire da linea direttrice per un'organizzazione veramente democratica della società». Ruffolo. Delors e altri tentano di tracciare, di contro, le linee di un nuovo modello che punti a «uno smluppo differenziato e differente», non più basato sul prodotto nazionale lordo ma su indicatori più sofisticati, su una pianificazione statale solo delle grandezze macroeconomiche, su una suddivisione del reddito ma soprattutto del lavoro, sul decentramento, sulla creazione di un terzo settore cooperativo autogestito, sul mantenimento, in questo quadro riformato, del mercato e dei suoi valori concorrenziali. La trasformazione della Cee dovrebbe costituire il quadro istituzionale di queste modifiche strutturali. Tutto bene. Ma nessuno ha detto come ancorare un simile progetto a un movimento reale, a un rapporto di forza e a una aggregazione di masse capaci di assumerne l'impegno programmatico. Resta radicato il dubbio che se ieri «il passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza» approdò ai lager staliniani, oggi la ricerca di un nuovo traguardo segni solo l'inizio di un viaggio a ritroso l'erso l'U- topia' Mario Pirani