Il restauro che uccide

Il restauro che uccide UNA PROPOSTA PER LA CUPOLA DEL BRUNELLESCHI Il restauro che uccide La mappa degli edifici monumentali d'Italia potrebbe oggi (1981) venir redatta a due livelli, a seconda cioè che essi mostrino o no il marchio dei ripristinatori e di coloro che, sotto il pretesto del restauro, hanno come fine il ripristino più o meno integrale. E' ovvio che la manutenzione dei monumenti è indispensabile per la loro stessa esistenza fisica; e del tutto plausibili sono gli interventi volti ad eliminare le inserzioni di corpi estranei che (in seguito a periodi economicamente depressi e a situazioni di grave carenza nella struttura sociale e amministrativa) hanno preso abusivamente dimora nelle architetture, come parassiti privi di ogni significato artistico e culturale. A nessuno verrebbe in mente di rispettare le baracche e le mostre dei rivenduglioli che, qualche secolo addietro, si erano annidate tra i colonnati del Pantheon (anche se è indispensabile conservare la documentazione di episodi del genere, che sono molto importanti ai fini della ricerca storica e sociale); e penso che si sia tutti d'accordo nel deplorare le condizioni di abbandono, sfregio e anche squallore in cui versano insigni edifici come la dimora di Pandolfo Petrucci a Siena o il Palazzo Doria Pamphili a Valmontone, con i suoi già splendidi saloni, in cui tramezzi e controsoffitti si moltiplicano sotto i fatiscenti affreschi di Mattia Preti, del Cozza e di altri insigni pittori del Seicento. Il ripristino è di tutt'altro genere, e si può definire come la potatura radicale di un monumento, dal quale vengono eliminate spietatamente tutte le aggiunte posteriori a quello che era (o si presume fosse) il suo aspetto originario, ed eliminandole anche quando si tratta di apporti di alta qualità artistica e di grande significato storico e culturale. Tipico aspetto della prassi del ripristino è che esso viene d'abitudine progettato e condotto sulle strutture di edifici che non hanno nessun bisogno di intervento, ma che, al contrario, si trovano quasi sempre in ottime condizioni di salute: perché i fini che lo sostengono non sono né conservativi né di restauro, trattandosi di motivi a sfondo ideologico, religioso o politico o estetizzante. Definito cosi, il ripristino inizia verso la fine del Settecento; ma mentre il Giacobinismo e i suoi derivati procedevano alla distruzione sic et simpliciter dei monumenti dell'tf»cien regime (basti pensare all'Abbazia di Cluny, al Tesoro di San Marco, al Castello Sforzesco di Milano, la cui progettata demolizione non fu, per mancanza di tempo, portata a termine), la Restaurazione postnapoleonica agì in modo più sottile, dando il via (soccorsa in ciò da un uso pervertito delle scienze storiche) a una distruzione selettiva, privilegiando, a fini di immobilismo sociale e politico, talune epoche del passato. E mitizzando il Medioevo come periodo di concordia, di operosità, di spiritualità religiosa, si dette il via ad alcuni tra i più esiziali ripristini, come quello ad esempio che ha privato il Duomo di Orvieto di una grossa porzione di opere d'arte che si erano accumulate nel suo interno nel corso dei secoli. Tutti gli splendidi altari cinquecenteschi delle due navate laterali furono abbattuti senza scrupolo, annientando stucchi e affreschi, e salvando soltanto (ma in quali condizioni!) le pregevoli tele del Muziano, del Nebbia, del Lanfranco e di altri pittori. A parte il dipinto di Gentile da Fabriano (che per altro era visibile anche prima dello scempio) oggi le due navate mostrano, in mezzo alle false striature bianche e nere, pochi e miserabili resti di affreschi trecenteschi, dovuti a piccoli artisti locali, certamente meno significativi di quelli che si vollero eliminare per ricondurre il tempio al suo presunto volto originario. E resta poi il fatto che, proprio nel Trecento, le due navate, oggi così squallide, dovettero essere più simili all'aspetto anteriore alla folle potatura, gremite cioè di altari, candelieri, ex voto, dei segni cioè di una religiosità autentica, di una storia in perenne svolgimento. Senza contare che, come oggi si sa, gli altari demoliti a Orvieto furono il modello per l'intera Europa controriformata. Ma, come diceva nel 1866 un fautore della loro distruzione, essi erano degni di edifizi pagani di ricreamento e di mollezza: quindi, a morte'. Di un successivo, gravissimo episodio di ripristino fu vittima il Duomo di Siena; ivi ai pilastri della navata centrale erano addossate quattordici statue in marmo di Carrara dovute a un importante seguace di Gian Lorenzo Bernini, Giuseppe Mazzuoli, eseguite tra la fine del Sei e i primi due decenni del Settecento. Già esposti alle critiche degli eruditi locali durante la polemica antibarocca dell'età neoclassica, i quattordici marmi divennero le vittime degli attacchi di un pittore purista, Luigi Mussini. che li giudicava informi, un'offesa alla Religione e all'Arte per i loro contorcimenti saltellanti, che interrompevano sgarbatamente le grandi linee della navata. Per farla breve, le quattordici statue furono prima rimosse, poi vendute: di due di esse (il Redentore e la Vergine) non si conosce neppure l'attuale dimora, mentre quelle dei Dodici Apostoli si trovano (per fortuna!) a Londra, dove sono il vanto dell'Oratorio di San Filippo Neri a Brompton Road. L'episodio è stato oggetto di uno studio (pubblicato nel 1975 sulla rivista Paragone e finanziato dal Consiglio nazionale delle ricerche) a opera di Donatella Innocenti Romano, che l'ha intitolato Una brutta pagina di storia senese. Ma di episodi del genere è ormai gremita l'Italia monumentale, dal Duomo di Lodi, irrimediabilmente sconciato da un costosissimo ripristino, alla Chiesa di Santa Maria di Collemaggio all'Aquila, per la quale sarebbe necessario adoperare aggettivi molto pesanti. Dirò che gli Abruzzi sono una delle regioni più sfigurate, in tempi assai vicini a noi, da una siffatta manìa, che ha sperperato, senza alcuna necessità, somme ingentissime, stornandole da altri e più urgenti lavori di autentico restauro e di conservazione. A Tagliacozzo, la Chiesa di San Francesco è stata grattata senza rimedio, eliminando tutti gli aitari barocchi, annientando cioè la storia della comunità cittadina, delle sue Confraternite, delle sue famiglie più importanti; la navata gotica si presenta oggi come uno squallido capannone, illuminato da luci tubolari, privo persino degli stalli del coro (che, si dice, sono stati venduti) mentre a cento metri di distanza il Palazzo Ducale, che fu degli Orsini e dei Colonna, attende che un eccezionale ciclo di affreschi del Quattrocento venga scoperto, portando così alla luce un unicum della pittura profana rinascimentale. E' lecito parlare di ideologia politica o religiosa per questi ripristini più recenti? Non direi. Essi segnano le tappe del provincialismo culturale italiano, dell'arretratezza della sua burocrazia, dell'assenteismo cinico e indifferente della corpo¬ razione universitaria. Ma ora c'è di peggio: come ha indicato un articolo di Alfredo Venturi apparso su La Stampa del 28 febbraio, si suggerisce la rimozione, dalla cupola del Duomo di Firenze, del gigantesco Giudizio Universale, opera famosissima e importantissima di due grandi artisti del Cinquecento. Giorgio Vasari e Federico Zuccari. Una lettera del professor Carlo Ludovico Ragghianti, apparsa anch'essa su La Stampa dell'8 marzo, giustifica i motivi di tale progetto. In essa i dipinti da rimuovere vengono giudicati un verminaio, una lebbra, uno stadio gesticolante, che nega e tarpa l'opera di Filippo Brunelleschi, una sottana di affreschi, da eliminare per portare alla sua purezza il ritmo ascensionale della cupola. Come si vede, si tratta in essenza delle medesime giustificazioni invocate dal Mussini cento anni fa per il Duomo di Siena: segno che certi stereotipi mentali sono duri a morire. Ma sorprende e addolora che il progetto venga sollecitato da uno studioso del livello di Ragghianti; né si vede alcun motivo per credere che il progetto di rivestire la cupola del Brunelleschi di mosaici o affreschi risalga a epoca posteriore, e cioè al Magnifico Lorenzo, quando lo stesso Antonio Manetti, biografo del grande architetto (che è la fonte più attendibile), afferma che gli intonaci furono da lui stesso studiati in modo da ricevere in tempi successivi decorazioni del genere. Contrariamente a quel che si sente dire, non è vero che in Italia manchino i fondi per la tutela dei monumenti e delle opere d'arte: essi ci sono, ma vengono male spesi, in modo caotico, senza un piano d'insieme. Nella sua lettera, il professor Ragghianti parla di responsabilità culturale: proprio in base a questa pregherei coloro ai quali spetta la decisione finale sull'inaudito progetto di visitare il Museo dell'Opera del Duomo di Orvieto, con i piccioni che svolazzano tra le tele agitate dal vento come stracci, con gli insetti che circolano indisturbati tra i disegni preziosissimi del Trecento, con i meravigliosi intarsi del vecchio coro che si stanno riducendo a mucchi di segatura. E taccio su ciò che si vede nei depositi del Museo stesso. Federico Zeri