E Nerone squalificò Pompei di Carlo Moriondo

E Nerone squalificò Pompei VIOLENZA NEGLI STADI: SFOGLIANDO LE PAGINE NERE DELLO SPORT E Nerone squalificò Pompei Un episodio di intolleranza nell'anno 59 - In tempi più recenti un gol annullato tra Perù e Uruguay scatena una battaglia che invade Lima e provoca 327 morti - La rivolta di Caserta per una penalizzazione di sei punti - Dopo gli ultimi fatti cruenti, si rinnovano appelli e richieste di misure concrete: purché, dopo il solito polverone, tutto non torni come prima Abbiamo riscoperto la violenza negli stadi. Con la nostra memoria corta, ci stavamo dimenticando che tutte le domeniche, se non in serie A almeno in serie Boin serie C, guardalinee ricevono bottigliette in testa, arbitri vengono assediati negli spogliatoi, pullman e auto, rei di portare una targa nemica, vengono demoliti a colpi di spranga. Ma domenica scorsa uno sciagurato ha vibrato una coltellata alla schiena di un tifoso colpevole di essere romanista, e di nuovo in tutta Italia si è levato il grido «Basta con la violenza negli stadi!». Finiamola con le botte, non solo perché così vogliono la civiltà più. elementare, la logica e il buonsenso, ma anche perché, a furia di vedere pestaggi sugli spalti, la gente potrebbe anche smetterla di far la fila ai botteghini dei biglietti... Così almeno sostengono alti esponenti sportivi, consci non solo del costume, ma anche degli incassi. Intendiamoci: il grido collettivo che si leva dal Paese deve essere preso sul serio, deve provocare provvedimenti, misure d'emergenza. Ma temiamo, conoscendo l'ambiente, che dopo il solito polverone, dopo qualche domenica di ipocriti embrassons-nous, dopo temporanee scomparse di striscioni e mortaretti, tutto ritorni come prima, secondo la tendenza all'insabbiamento che prospera nel nostro Paese, in campi anche più importanti degli stadi di calcio. Problema non nuovo, quindi, anzi antichissimo, che affonda le radici nell'animo stesso dell'uomo dai tempi di Caino, primo violento. Facciamo un esempio storico: il campo del Pompei fu squalificato da Nerone per dieci anni, a causa della «violenza negli stadi-. Correva l'anno 59. Pompei aveva uno stadio magnifico, i cui gladiatori si sgozzavano per il divertimento di nobili e plebei che gremivano gli spalti (gratis: divertirsi a spese dello Stato era un diritto riconosciuto). Ogni gladiatore aveva i suoi tifosi; c'erano gli «ultras- che inneggiavano ad Africus, c'erano i «leoni della fossa- che spasimavano per il reziario Obnoxius. Venivano allo stadio anche gli abitanti della vicina Nocera e un giorno scoppiarono liti, si venne alle mani, i tifosi si spaccarono reciprocamente in testa anfore e ciotole da vino, ci furo¬ no morti e feriti, accorsero truppe da Pozzuoli e la calma ritornò a suon di nerbate. Nerone, che di violenza si intendeva, andò su tutte lefurie, impose una seduta speciale del Senato. Lo stadio di Pompei fu squalificato per dieci anni, i «commandos» di tiftisìfurijno sciolti, ti responsabile dello stadio fu spedito in esilio, probabilmente in Sardegna. Sentenza inappellabile, nessuna amnistia. La squalifica durò dieci anni e fu poi completata dall'ira del Vesuvio, come se anche Giove volesse puni¬ re la città rissosa. Questo avveniva quasi duemila anni fa, assai prima dell'invenzione del diabolico gioco della palla rotonda. Ma in venti secoli l'uomo non è affatto migliorato se assistiamo a fatti che sembrano originati da «matta bestialitate-, come dvée Dante. Il 1969 è l'anno della conquista della Luna, ma è anche l'anno della guerra calcistica tra Honduras e Salvador. Per un pallone, centinaia di morti. Erano più civili Romani e Albani, quando risolvevano le vertenze fa¬ cendo scendere in campo il «team- degli Orazi contro la «compagine- dei Curiazi: quella fu la guerra con la più bassa mortalità di tutti i tempi. Honduras e Salvador per fortuna non avevano la bomba atomica: dovettero limitarsi a far uso di mortai e aerei, di mitragliatrici e carri armati. All'incirca i due Paesi si equivalgono: molto analfabetismo, pochi ospedali, minimo reddito prò capite. In una situazione di questo tipo, invece di chiedere ospedali e scuole decenti le rispettive popolazioni chiedono che la loro «nazionale- sia ammessa alla Coppa del Mondo. Nell'eliminatoria di andata. l'Honduras batte il Salvador ed i tifosi pestano gli avversari. Nella partita di ritorno vince il Salvador e i tifosi danno la caccia ai rivali nello stadio e per le strade. L'esercito, che in quel momento è disoccupato per carenza di colpi di Stato, non chiede di meglio che sgranchirsi le braccia: in uno slancio di sportività colonne di automezzi militari superano i confini e si avvicinano a Tegucigalpa, capitale dell'Honduras. La «bella- si disputa quindi a suon di granate. Le vittime non sono solo tifosi: sono anche vecchi, donne e bambini, a cui non importa nulla che un centravanti «saetti imparabilmente in rete- e cercano solo di nascondersi nelle piantagioni di caffè e di banane. Alla fine interviene l'Osa (Organizzazione degli Stati americani), che fischia la fine e manda i contendenti negli spogliatoi. Il bilancio è spaventoso: centinaia di morti per undici giovanotti in mutande che menano calci a una palla. L'anno seguente, cioè nel '70, durante un incontro di calcio tra Perù e Uruguay, a Lima, ci furono 327 morti. L'arbitro aveva annullato un gol ai peruviani e questo scatenò la battaglia, prima sulle gradinate, poi per la città. Il Perù «era stato offeso-, si disse, come se questa fosse una scusante. La frase era invece una conferma della teoria del sociologo tedesco Horst Geyer, secondo il quale i concetti di nazione e di patria «sono termini astratti fino a che non si entra in uno stadio». Chi scrive ha udito, quando la Juventus si presentò a Belgrado per la finale della Coppa dei Campioni contro l'Ajax, l'inno di Mameli cantato a gola spiegata da almeno trentamila persone, erano i tifosi juventini venuti a incitare la squadra del cuore, ma riesce difficile pensare che fossero animati da ardente spirito patriottico. Volevano semplicemente contarsi e farsi sentire dai bianconeri, nonché intimorire gli arancioni (che poi, tetragoni, vinsero...). Come afferma il filosofo olandese Johann Huizinga: «Il successo sportivo è in massima misura trasferibile dal gruppo al singolo e viceversa». Se vince la mia squadra, vinco anch'io; se l'arbitro la punisce, punisce anche me, secondo l'elementare modulo comportamentale illustrato anche da Freud. 1 Abbiamo citato casi di follia sportiva collettiva in America. Anche in Italia ne abbiamo buoni esempi. Nel '70 la Casertana viene punita con sei punti di penalizzazione per illecito sportivo (corruzione) e perde il diritto, che la classifica le darebbe, di salire dalla C alla B. E' il finimondo. Il sindaco emette un proclama in cui incita la popolazione a dimostrare «con tutti i mezzi consentiti-. Quali sono i «mezzi consentiti-? L'interpretazione è piuttosto elastica: infatti la folla spacca vetrine, rovescia camion e automobili (degli altri); distrugge, nella reggia del Vanvitelli, il palcoscenico allestito per il Festival dei festival; sedi di giornali sono invase e devastate, cataste di traversine vengono date alle fiamme nella stazione ferroviaria. In città vengono a mancare acqua e luce; niente scuole, niente pane. Si sradicano piante, si abbattono cartelli stradali, si distruggono chioschi di benzina. Bruciano il provveditorato agli studi, l'Intendenza di Finanza, il Centro schermografico. Alla fine i feriti risultano cinquanta (non è facile fare il conto: molti nascondono pudicamente le lesioni e preferiscono non apparire sui registri degli ospedali) e gli arrestati novantotto. Ma la Lega Calcio resiste: la Casertana resta in C. La. città accoglie la decisione chiudendosi in un lutto austero. Altri dieci anni sono trascorsi. Nel frattempo abbiamo avuto anche in Italia un omicidio allo stadio: nel '79 Vincenzo Paparelli, trent'anni, due figli, nel derby Roma-Lazio, è ucciso a fianco della moglie da un razzo sparato dalla curva opposta. L'assassino è Giovanni Fiorillo, diciannove anni: si è costituito pochi giorni fa dopo una latitanza di quattordici mesi. Rischia quindici anni di carcere. «Lo sport — ha detto de Coubertin — affratella i popoli». Ma non è detto che i fratelli, come Caino insegna, si debbano amare. Carlo Moriondo Un'immagine di disordini. Troppo spesso il campo di gioco diventa campo