Managua, la rivoluzione di Amleto di Bernardo Valli

Managua, la rivoluzione di Amleto NEL NICARAGUA IN BILICO TRA AUTORITARISMO E DEMOCRAZIA Managua, la rivoluzione di Amleto Il Paese è appena uscito da una dittatura spietata - Distrutto dal terremoto del '72 e dalla guerra civile, non sa dove ricostruire la capitale - Ma c'è un dilemma ancora più angoscioso: che colore dare al regime sandinista - La borghesia liberale non è fuggita - Si potrà evitare il rischio di creare qui un'altra Cuba, un'altra «Fattoria degli animali»? DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE MANAGUA - La sagoma luminosa di Augusto Cesar Sandino sovrasta la città inesistente: è un'insegna al neon, gigantesca, come quelle pubblicitarie sui tetti delle metropoli latino-americane, o ai margini delle autostrade messicane: ma qui è il simbolo della rivoluzione. E' per l'appunto il ritratto, fosforescente, del guerriero indiano che negli Anni Trenta dette filo da torcere ai gringos e che il Nicaragua considera oggi padre della patria. Un Somosa, -Tacho-, capostipite della rapace famiglia onnipresente e onnipotente nel Paese per quarantacinque anni, uccise nel '34 Sandino, e adesso che tutti i Somoza sono stati cacciati Sandino è risorto: domina Managua dal 79, anno della liberazione, come la statua del Cristo Redentore domina la baia di Rio de Janeiro. All'alba l'insegna si spegne, scompare: il sole la cancella ogni mattina, la riduce a una goffa ed enigmatica impalcatura appena affiorano le prime luci e con esse riemergono le preoccupazioni quotidiane di un Paese appena uscito da una dittatura tra le più feroci — in questi Balcani d'America pur cosi fertili di tiranni — e adesso in bilico tra autoritarismo e democrazia. Addormentatisi con il rassicurante Sandino che brilla sulla capitale, i nicaraguensi si risvegliano con un groviglio di fili e di tubi, che si proietta scheletrico verso il cielo. E' il ritorno alla realtà. La capitale non esiste, conta mezzo milione di abitanti ma non c'è: la si cerca invano tra le rovine del terremoto del 1972, su cui spuntano rigogliosi ciuffi d'erba e persino qualche alberello, come sulle chiese distrutte di Berlino Est. Il regime non ha abbastanza soldi e ha troppi guai per pensare alla ricostruzione di Managua, che così rimane una città di pionieri, senza un centro e con una periferia interminabile, con tante baracche e poche case vere. La precarietà di Managua non riflette tanto l'instabilità e la fragilità della rivoluzione, quanto il suo carattere dubbioso: se c'è un dilemma sul come e dove ricostruire la capitale, ce n'è anche uno. ben più angosciante, sul colore da dare al regime. E per quanto questa incertezza costi cara, perché significa una. gran perdita di tempo, uno vorrebbe invitare i nove comandanti sandinisti a non avere fretta, a lasciarla incolore la loro rivoluzione. E' meglio: si corrono forse più rischi, ma si compiono meno errori, e se proprio non si possono evitare gli sbagli il pragmatismo consente correzioni. La sagoma luminosa di Sandino fa tenerezza perché è quella di un Amleto pistolero, senza barba e senza catechismi sotto il braccio. Da quando Ronald Reagan, appena entrato alla Casa Bianca, ha puntato il dito sul Salvador e ha rivolto uno sguardo accigliato al Nicaragua, sospettato anzi accusato di fornire armi alla vicina guerriglia, cioè di aiutare le infiltrazioni sovietiche e cubane, la rivoluzione è ancora più squattrinata e minacciata. Gli Stati Uniti hanno sospeso gli aiuti, finanziari e alimentari, rischiando di ac- celerare quel processo che vent'anni or sono trasformò Cuba in una repubblica socialista e poi via via in una roccaforte comunista e prosovietica alle porte della Florida. L'interrogativo che ci si pone arrivando a Managua è proprio questo: il Nicaragua, finora teatro di una rivoluzione autonoma, con molti amici invadenti e nemici pericolosi, ma senza protettori paralizzanti, ancora non ben definita o definibile, sta slittando verso una esperienza autoritaria, sul tipo cubano, con tutte le delusioni e complicazioni che ciò comporterebbe? La risposta è -no-, almeno per ora. Devo tuttavia ricordare a me stesso che vent'anni fa, all'Avana, pensai la stessa cosa del regime di Fidel Castro, allora tollerante e ricco di immaginazione. E sbagliai, come molti altri. La Managua 1981, messa sotto stretta sorveglianza da Washington, non è comunque L'Avana 1961, traumatizzata dallo sbarco anticastrista nella Baia dei Porci. Me ne accorgo visitando la redazione della Prensa, quotidiano «al servicio de la verdad y la justicia». Il direttore non ha neppure trent'anni, si chiama Pedro Joaquin Chamorro, esattamente come il padre assassinato il 10 gennaio 1968 dai sicari della famiglia Somoza, perché esprimeva con coraggio le idee di una borghesia liberale. Qui la borghesia liberale, professionisti e imprenditori, non è infatti scappata, come quella cubana, nel Messico o in Florida. E' rimasta: prima si è schierata contro la dittatura dei Somoza, poi ha partecipato a un nuovo regime, ora è ali 'opposizione. Il rublo La Prensa esprime le sue idee, si batte contro le tendenze autoritarie, contro una svolta radicale della rivoluzione. Il quotidiano viene redatto e stampato in due baracche, in un'atmosfera da Far West. All'ingresso, affisso a una parete di cartone compresso come il manifesto di uno sceriffo, c'è il programma dei liberali (Movimento democratico). E' molto semplice: «Noi non scappiamo a Miami, non ci sottomettiamo e se cerchiamo di ottenere della valuta è per il bene del nostro Paese». Quella parola, «valuta» sembro volgare in un clima di tensione ideale, ma è importante, essenziale. E' in fondo per mancanza di valuta, di dollari, in seguito al rifiuto americano di comperare lo zucchero, dopo la nazionalizzazione dei beni stranieri a Cuba, che Castro si dedicò al culto del rublo. E se il dollaro era condizionante, cosi lo è in questi Paesi del continente, il rublo ha isolato Cuba, ne ha fatto una democrazia popolare che si distingue dalle altre per il clima tropicale. Sono nella redazione della Prensa mentre arriva la notizia che la sede del Movimento democratico è stata devastata. Da chi? Da gruppi sandinisti. ma incontrollati. La rivoluzione sfugge di mano ai dirigenti, oppure i dirigenti radicali, favorevoli a «una svolta marxista-leninista», cercano di rompere gli indugi dei dirigenti moderati, fedeli al «pluralismo politico e al dualismo economico», secondo gli impegni scritti nel programma del regime. E' facile muovere una folla di disoccupati, che non mancano, o squadre di giovani, che non sopportano la prudenza della rivoluzione. Sembra di leggere un testo classico. Il giovane Pedro Joaquin Chamorro non drammatizza troppo. «Non ci lasciamo spaventare» dice. «Abbiamo conosciuto situazioni ben peggiori con Somoza». Quel che non sopporta è che la giunta rivoluzionaria monopolizzi il sandinismo. Anche lui si dichiara sandinista. Ma cos'è il sandinismo? Suo fratello, Carlos F. Chamorro, dirige Barricada, organo ufficiale del Fronte sandinista di liberazione nazionale, ossia del regime, e pensa che il marxismo, se non proprio il modello cubano-sovietico, sia una scelta inevitabile per il Nicaragua. Per sfuggire all'imperialismo yankee non vi sarebbero, a suo avviso, altre scelte. Ogni giorno i due fratelli Chamoiro, all'ora di cena, continuano la polemica che alimentano quotidianamente sui loro rispettivi giornali. E vi partecipa un altro Chamorro, Xavier, che dirige El Nuovo Diario, terzo giornale della capitale, politicamente a mezza strada tra La Prensa e Barricada. Chi arbitra gli scontri è donna Violetta, la madre, una bella signora cinquantenne che quando le fu trucidato il marito continuò imperterrita ad attaccare la banda dei Somoza. Donna Violetta fece parte della prima giunta rivoluzionaria del 79, poi l'abbandonò per «motivi di salute», ma probabilmente perché non condivideva le idee del predominante e invadente Fronte sandinista. Oggi, agitando l'elegante bastone col pomo d'argento su cui si appoggia per via di una frattura, dice: «Questa rivoluzione è anche nostra e non l'abbandoniamo agli altri». La saga della famiglia Chamorro riflette quella del Paese. Ma non tutti sono tenaci, testardi, come i figli di donna Violetta, sul versante liberale molti mollano: se ne vanno se non proprio in Florida per lo meno in Costa Rica, Svizzera dell'America centrale, dove le caserme sono state trasformate in scuole e i colonnelli in pompieri e in vigili urbani. Non ci sono soldi da investire, la terra perde valore (in certe zone costa venti dollari l'ettaro), e le villette sopravvissute al terremoto e ricostruite sulle macerie vengono svendute, insieme con le automobili americane, che consumano troppa benzina. «Come si fa a restare sotto la minaccia che il governo nazionalizzi, da un giorno all'altro, all'improvviso, inostri beni?». Per ora la rivoluzione ha incamerato le proprietà della famiglia Somoza, ed erano cospicue: rappresentavano il 40 per cento del patrimonio nazionale. Compagnie di assicurazione, miniere, risorse forestali e ittiche, terre che per visitarle tutte bisognava sorvolarle in aereo. Il 60 per cento del prodotto nazionale è ancora nelle mani dei privati e gli Stati Uniti condizionano ia ripresa degli aiuti alla garanzia che più della metà di tali aiuti siano investiti nel settore privato. E' una mano tesa alla borghesia liberale, ma al tempo stesso una imposizione che urta l'orgoglio del regime, al quale è facile rammentare che per più di 40 anni Washington ha teso la mano alla famiglia Somoza. La rivoluzione nicaraguense è tuttavia più prigioniera del dollaro di quanto lo fosse quella cubana ai suoi primi passi, appena scesa dalla Sierra Maestra. Qui il Paese è distrutto. Quel che non ha fatto il terremoto lo ha fatto la guardia nazionale di Somoza, i pretoriani che prima di espatriare o di arrendersi hanno demolito fabbriche e bruciato piantagioni. L'aiuto americano non è soltanto necessario per ricostruire ma anche per sopravvivere. La sospensione dei crediti da parte di Washington ha bloccato quelli delle banche internazionali. Un raccolto mediocre condurrebbe a breve termine a un razionamento dei prodotti alimentari di base. Le difficoltà economiche possono favorire la sinistra della rivoluzione, i cui massimi esponenti sono Moisés Hassan Morales e Jaime Wheelock, due dei nove comandanti, considerati i capi storici della lotta contro la dittatura. Il primo, Hassan, è un uomo asciutto che parla con franchezza: «Gli Stati Uniti devono capire che sono finiti i tempi in cui il loro ambasciatore poteva decidere quel che doveva fare o non fare il Nicaragua. Ma chi parla di una crescente presenza o influenza sovietica, ha dimenticato che ci siamo battuti per vent'anni perché questo Paese sia veramente il nostro Paese. E non siamo certo disposti a cambiare il vecchio padrone con un altro». Sull'autonomia politica e ideologica del regime contano i partiti dell'Internazionale socialista, in particolare quello socialdemocratico tedesco, che aiutano questa rivoluzione. Ma l'amministrazione Reagan non si fida e vede già nelle strutture politiche un nuovo modello marxista alle porte di casa. 200 chiese La giunta, che nelle sue prime edizioni contava più membri e partiti diversi, oggi è ridotta a un triumvirato dominato dal fronte sandinista. Il Consiglio di Stato, che dovrebbe essere il Parlamento, è di fatto una Camera delle corporazioni. Undici esponenti dei sindacati degli imprenditori e dell'opposizione si sono ritirati sull'Aventino, si astengono dal partecipare alle riunioni per protestare contro la tendenza dei sandinisti a comportarsi come se ci fosse un partito unico, il loro. Nelle prigioni vi sono soltanto 4500 uomini della guardia nazionale di Somoza, o altri stretti collaboratori del dittatore. Ma è capitato, di recente, all'avvocato José Esteban Gonzales di essere arrestato al suo ritorno da Roma, dove aveva protestato contro le violazioni del regime durante una udienza papale. Poi, dopo un processo, è stato per la verità rilasciato. Nel frattempo il ministero dell'Interno, affidato ad uno dei comandanti della rivoluzione, ha preso l'abitudine di proibire spesso le riunioni pubbliche dell'opposizione. Il Nicaragua non è ancora La fattoria degli animali descritta da George Orwell, anche se pur essendo tutti uguali ci sono già dei nicaraguensi più uguali degli altri: i capi sandinisti. Preoccupa il fatto che sia già stato stabilito che le prossime elezioni fissate per il 1985 non dovranno scegliere tra candidati con programmi politici diversi, ma tra uomini che, comunque, dovranno realizzare la rivoluzione. Restano tuttavia in sospeso gli obiettivi della rivoluzione. Il prete-ministro Ernesto Cardenal, un gesuita incaricato della gioventù e della cultura, insiste sulla fedeltà del regime «al pluralismo politico e al dualismo economico». Ed è quel che ripetono anche padre Miguel D'Escoto, altro prete-ministro (degli Esteri) e padre Parrales, che si occupa della previdenza sociale. Altra differenza tra la Cuba del '61 e l'odierno Nicaragua è l'influenza della Chiesa cattolica: qui è fortissima, e non solo perché dei sacerdoti partecipano, a titolo individuale, al governo, ma perché il clero nel suo insieme non si è opposto alla rivoluzione, l'ha favorita, e ha conservato il suo tradizionale prestigio tra i due milioni e mezzo di abitanti, dispersi in un paese di 210 mila chilometri quadrati, più della metà della superficie dell'Italia, dieci volte quella del vicino Salvador, che ha il doppio di abitanti. Le 200 chiese che sorgano su questo vasto territorio, semidisabitato, come del resto le altrettanti sedi del Fronte sandinista, non sono assediate moralmente e fisicamente da masse di contadini affamati di terra. Qui la terra c'è. Bisogna avere soltanto la volontà e i mezzi per coltivarla. La rivoluzione ha la volontà, e cerca di trovare i mezzi: è uno dei rari obiettivi certi. Molti altri sono ancora ignoti: ma in questi Balcani d'America, così ricchi di sanguinario folclore, tra i massacri del Guatemala e quelli del Salvador, il Nicaragua sandinista merita un po' di simpatia, d'aiuto e comprensione, se non altro per evitare che diventi un'altra Fattoria degli animali. E il rischioc'è. Bernardo Valli imi i*.T» itir'lkJ»*^ Managua, 1979. La guerra civile è finita, si calpesta il monumento al dittatore Somoza