I saccheggiatori

I saccheggiatori 1/AGENDA DI F. & L. I saccheggiatori L'Italia è ormai tutto un formicolante palcoscenico. Si cammina per le città grandi e piccole, si attraversa in auto un arcigno borgo montano, si prende il caffè in un paesone della bassa, si va a trovare un amico in un villaggio balneare, e sempre l'occhio cade su qualche manifesto o locandina che annuncia uno, cinque, dieci spettacoli di teatro. Questa straordinaria fioritura data da pochi anni e non trova paragone se non nella vertiginosa moltiplicazione degli scioperi; talché viene spontaneo il sospetto che tra i due fenomeni, così vistosamente paralleli, esista una specie di occulta interdipendenza, che quanto più aumentano le «produzioni» sceniche, tanto più tenda a calare l'altra produzione, quella che tiene in piedi l'economia del Paese (e il Paese). Una divaricazione suggestiva che, portata avanti ancora per qualche tempo, si concluderebbe con un «suicidio teatrale» non privo di una sua dionisiaca grandezza. Un intero popolo, noto nei secoli per una certa innata teatralità, si abbandona infine totalmente alla sua passione. Le scuole si chiudono, gli uffici si vuotano, la circolazione si arresta, le fabbriche vengono invase da ortiche e pipistrelli, mentre le casse comunali, regionali e statali danno fondo alle riserve per organizzare gli ultimi risotti pubblici, le salcicce e polente finali. Al diavolo il lavoro — dicono le febbrili moltitudini — all'inferno la Banca d'Italia, lo Sme, la Cee. Andremo in rovina, ci ridurremo a pezzenti, saremo cancellati dalla squallida lista dei Paesi cosiddetti progrediti, ma ne vale la pena. Avremo dato al gretto mondo moderno e materialista una lezione memorabile. Ci saremo immolati per Eschilo, Shakespeare, Racine, Schiller, Goldoni, Cecov, spariremo avendo negli occhi i gesti dei nostri grandi attori, nelle orecchie gli accenti dei nostri grandi drammaturghi. Si alzi il sipario, si dia inizio alla recita estrema, si parta verso la catarsi terminale. Di questa nobile fiaba si colgono nella realtà non pochi riscontri e presagi: ma non appena ci si china a esaminare da vicino i programmi, si vede che tra le fitte schiere di attivisti, praticanti e sacerdoti teatrali spira tutt'altra aria. Nei capannoni, negli scantinati, nelle sale stabili e instabili, nelle palestre, nei campielli, negli ex conventi, negli ex canili, negli innumerevoli «spazi teatrali» che pullulano in tutta la penisola, è in corso niente altro che una colossale, indiscriminata masticazione parassitaria. Pippo Cecioni — si legge a caratteri di scatola — Alla ricerca del tempo perduto. E sotto, in corpo piccolissimo: «Da un'idea di Marcel Proust». Lo spettacolo consiste in una scena di fustigazione ripetuta diciotto volte, in cui Charlus porta la maschera di Ronald Reagan. Annamaria Saponettu e Chiara Battitasti hanno invece realizzato L'origine mi fa specie, coraggiosa «rilettura» dell'autobiografia di Darwin, dove il vecchio scienziato maschilista violenta una gorillessa, che dà poi alla luce Marilyn Monroe sui gradini della Borsa di Londra. Critica della ragione impura è un mimodramma di Beppe Mangiarape, che presenta una visione di Kant bambino e onanista, rinchiuso dal principio alla fine in una gabbia per conigli, mentre un sergente delle SS sillaba l'elenco telefonico di Kònisberg. Sono esempi inventati, ma con sforzo. E' difficile infatti non diciamo superare, ma perlomeno approssimarsi con la fantasia al tipo di «operazioni culturali» escogitate da questi gruppi, circoli, nuclei, cellule, cooperative e collettivi di teatro, che si chiamano volubilmente «Gramsci», «Ismaele», «La spada di Damocle», «Il dubbio», «Numero zero», «Lab», «Usher», «Lao-tse». E' gente, bisogna dire, munita di uno stomaco di ferro. Incoraggiata all'inizio da alcuni esempi «illustri», o ritenuti tali, s'è prima applicata a triturare i testi tradizionali, greci, latini, inglesi, tedeschi, russi, francesi, italiani, rovesciando le tragedie in farse, le farse in monologhi, le commedie in funerali, i drammi borghesi in circhi equestri, i circhi equestri in tragedie, e spalmando su tutto e su tutti quell'uniforme «falsetto», quelle vocette stridule, di testa, quelle plastiche immobilità, quelle gesticolazioni accelerate, caricaturali, quelle smorfie grottesche e tanto espressive che sono l'impronta marmellatosa, inconfondibile, del teatro d'oggi. Tutte le possibili «letture» e «riletture», variazioni, distorsioni, contaminazioni, sperimentazioni sono state via via messe in scena: Amleto senza il monologo; Amleto soltanto col monologo; Amleto che è un operaio della Fiat; Amleto che è l'amante di Polonio; Amleto che è un drogato; Amleto che viene trafitto dalla Cia; Amleto che viene sedotto da Ofelia; e così di seguito, «in chiave» volta a volta di leninismo, neodandysmo. neo-dannunzianesimo, maoismo, ecologismo, femminismo... Ma le «chiavi» non potevano bastare a tanta fame, le opere concepite e scritte per il teatro, per quanto numerosissime, erano pur sempre un buffet limitato. Perché fermarsi lì, quando c'erano secoli, millenni di cultura a disposizione? Ecco dunque Eraclito adattato per le marionette, ecco il musical su Rimbaud, la Bibbia gestuale, le sorelle Karamazov, Gibbon fra le belle statuine, Montale elettronico, la parodia della parodia di Leonardo da Vinci, Keplero in dialetto pugliese, Tacito art déco. Non esiste letteralmente niente che i formidabili divoratori non osino addentare, inghiottire, digerire, ridurre a bolo, a poltiglia; né mai sembra sfiorarli l'idea di mettersi lì, con carta e penna, e cercare d'inventare qualcosa in proprio. Siamo in un'epoca di transizione — essi ribattono, pratici — dobbiamo rielaborare il passato, rivitalizzare gli antichi messaggi, smontare pezzo a pezzo la nostra eredità culturale, individuarne i filoni, le strutture, i nessi, gli strati, le contraddizioni, le lezioni, i segreti, gli archetipi. Dobbiamo scavare, estrarre, incastonare. Ciascuno di loro, individualmente, è senza dubbio convinto della propria missione, pieno d'entusiasmo, di zelo, di fede, e crede che prima di lui nessuno abbia mai veramente capito Spinoza, letto come si deve Leopardi, approfondito sul serio Omero. Quei sommi, la cosa è evidente, scrissero affinché oggi a Torino come a Barletta, a Monfalcone come a Roma, teatranti estrosi avessero modo di ritrovare la propria identità ed esprimere il proprio genio. Lasciamo ad altri il compito di rallegrarsi per tanta baldanzosa vivacità, o di scandalizzarsi per una così bovina incultura, una così madornale presunzione. Deplori chi vuole l'elitismo di questi «operatori» che spesso mettono insieme in nome del popolo, e a spese del popolo, spettacoli di cui il popolo (che Dio gliene renda merito) si ostina a non capire assolutamente niente. Ed esalti chi vuole le squisitezze formali, le allusive sfumature e le citazioni incrociate di cui gli stessi danno diligentemente prova nei loro allestimenti. A noi interessa l'effetto d'insieme, il senso presumibile di tutto questo indaffarato amore per il teatro; e ciò che vediamo ci pare non riveli nulla di nobilmente dionisiaco, nulla cui si possa, sia pure di lontano, aderire. E' un banchetto a esaurimento, una sterile abbuffata, un saccheggio arrogante e famelico sul gran corpo della cultura. Il brulichio c'è, ma è d'insetti, di larve. Carlo Frutterò Franco Lueentini

Luoghi citati: Barletta, Italia, Londra, Monfalcone, Roma, Torino