«Polonia: non dar tregua al potere»

«Polonia: non dar tregua al potere» INTERVISTA CON L'ESULE LESZEK KOLAKOWSKI, FILOSOFO SENZA DIO NÉ MARX «Polonia: non dar tregua al potere» «La pressione interna può portare cambiamenti di notevole entità nell'ambito del blocco comunista» - «Persino in Urss esìstono incrinature: è un Paese che soffre di contraddizioni insanabili» - «Nel '70 l'intellighenzia polacca fu debole e inattiva di fronte alla rivolta operaia; nell'80 ha aiutato il movimento a esporre le sue rivendicazioni» - Il maggior pensatore polacco d'oggi si definisce ateo e anticomunista, ma crede in una società che esprìma «quanto c'è di meglio» nel cristianesimo e nel socialismo - «Non credo che sia possibile una cultura senza conflitti» ROMA — Il filosofo polacco Leszek Kolakowski è in Italia. L'altra sera ha partecipato, insieme con Mario Tronti, Gianni Baget Bozzo, Paolo Flores d'Arcais, al dibattito sa «La crisi del marxismo e la Polonia di Solidarnosc, organizzato dal centro culturale «Mondoperaio». Di Kolakowski è da poco stato tradotto «Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo» (ed. SugarCo). Progressista e conservatore al tempo stesso, aperto ai valori del cristianesimo pur restando non credente, Leszek Kolakowski recepisce, senza conciliarli, i messaggi contraddittori della nostra eredità culturale. La sua opera è un richiamo alla responsabilità morale e un rifiuto delle soluzioni illusorie che più di una volta hanno tentato il nostro secolo. In questa intervista, il grande filosofo polacco in esilio spiega le linee principali del suo pensiero e gli ultimi avvenimenti in Polonia. — In quali circostanze è stato escluso dal partito comunista polacco, e perché ha dovuto lasciare il suo Paese nel 1968? «Ero membro del partito da quando avevo 18 anni. Dal 1955-56 facevo parte della corrente che poi è stata bollata come revisionista. Dal 1956, io e i miei compagni non avevamo quasi nulla in comune con l'ideologia comunista; ma abbiamo continuato a credere, a torto o a ragione, che il partito rappresentasse l'unica sede nella quale fosse possibile esprimersi pubblicamente su argomenti politici. «À quell'epoca abbiamo avuto molti scontri con i dirigenti, la situazione diventava insostenibile. Sono stato espulso dopo un discorso pronunciato in occasione del 10° anniversario dell'ottobre polacco del 1956: era una critica della censura, dell'oppressione culturale e politica, dell'assurda politica economica. Naturalmente c'erano altri capi d'accusa: la mia difesa di Kuron e Modzelewski, giovani intellettuali che erano stati incarcerati perché avevano fatto un'analisi critica del sistema; la mia attività pubblica durata anni; addirittura un colloquio con il cardinale Wyszynski e uno con Brzezinski, il futuro consigliere di Carter. «Quanto alla mia partenza dalla Polonia, non sono emigrato, ho ancora il passaporto polacco, e neppure sono stato costretto ad andarmene. Nel marzo '68, dopo i moti studenteschi, con molti altri compagni sono stato espulso dall'università durante una specie di pogrom culturale. Ci accusavano di aver politicamente corrotto i giovani. D'altra parte, era il momento della grande purga in tutte le istituzioni culturali, in base a criteri politici e antisemiti. Per caso, a quell'epoca ho ricevuto un invito dall'università McGill di Montreal; dopo mesi di difficoltà ho finalmente ottenuto il passaporto». — Perché ha scelto prima gli Stati Uniti, poi l'Inghilterra? «Prima sono stato invitato in Canada, poi a Berkeley in California, nel 1969-70. In seguito sono stato nominato membro dello Ali Souls College di Oxford, dove sono poi vissuto, salvo una parentesi di un anno alla Yale University. All'inizio degli Anni Settanta gli Stati Uniti mi sembravano molto lontani dall'ambiente culturale nel quale ero vissuto. «La nuova sinistra americana, che a quell'epoca ho avuto occasione di osservare da vicino, era per me uno spettacolo pietoso. Non tanto perché i radicali americani fossero sordi alle esperienze del socialismo reale, e neppure per le loro fantasie utopistiche che mi hanno nauseato, e che, dopo tutto, erano normali fra adolescenti. Il motivo era quella barbarie mentale, quella volontà ostinata di distruggere il sapere, l'università; di abolire tutti i criteri intellettuali, tutto ciò che richiede uno sforzo; di sostituire al pensiero un urlo inarticolato e la violenza. «Era in fondo il movimento ,degli enfants gàtés delle classi medie, che esprimeva però anche una vera malattia culturale: la rottura nella trasmissione dei valori sociali. La vecchia generazione americana non era più capace di trasmettere ai giovani le virtù tradizionali. C'è stata allora una disperata ricerca di un qualcosa che riempisse questo vuoto spirituale, che fossero le droghe, le puerili velleità rivoluzionarie o le religioni orientali. Tutte cose infinitamente meno drammatiche in Inghilterra». — In che cosa l'estate polacca del 1980 si distingue dai fatti di Danzica del 1970, e che ruolo ha avuto l'intellighenzia in questo movimento? «Nel 1970, l'intellighenzia polacca si era mostrata debole e inattiva di fronte alla rivolta operaia: non dimentichiamo che era stata minata dai pogrom del '68. Ma la principale differenza fra il '70 e l'80 sta nel fatto che il primo caso fu una disperata rivolta di sfruttati senza idee politiche coerenti, e c'era ancora l'illusione che i cambiamenti nella direzione del partito potessero avere grande importanza. Nel 1980, in un modo che ci ha sorpresi tutti, gli operai si sono mostrati straordinariamente capaci di mantenere il movimento in forme pacifiche e decise, pur formulando rivendicazioni politiche chiare, per vincere sui punti principali». Opposizione «Gli intellettuali non hanno organizzato questo movimento; ma il lavoro dell'opposizione politica negli anni precedenti, soprattutto attraverso il Kor, ha avuto la sua importanza, come l'opposizione degli scrittori e degli scienziati... Tutto ciò ha contribuito a creare un'atmosfera favorevole che ha aiutato gli operai ad articolare le loro rivendicazioni, a porle in forma politica». — Crede dunque alia plasticità del sistema socialista? «La nostra esperienza ha ampiamente dimostrato che in questo sistema, per quanto dispotico sia nei suoi principi, vi possono essere notevoli differenze. Altrimenti, la lotta per il cambiamento non avrebbe significato. Sarebbe assurdo, per esempio, affermare che non c'è differenza fra la Polonia socialista d'oggi e gli ultimi anni dello stalinismo. La censura politica è sempre distruttrice, ma ci sono vari gradi che possono avere vitale importanza per la cultura. Basta paragona- re la Polonia alla spaventosa miseria culturale della Cecoslovacchia occupata dai sovietici. «Ma questo sistema può cambiare soltanto se non si dà tregua al potere. In Polonia come negli altri Paesi socialisti non ci sarà mai un cambiamento sostanziale, verrà dalla conversione dei dirigenti alla democrazia. Si possono strappare concessioni solo attraverso la resistenza, e, meno si resiste, più l'oppressione diventa soffocante. Se la resistenza si allenta, il potere tenterà di spazzar via tutto ciò che è stato conquistato. All'inizio degli scioperi in Polonia, sulla stampa occidentale si è letto spesso che il sistema socialista non avrebbe potuto accettare i sindacati liberi. Indubbiamente i sindacati operai sono assolutamente incompatibili con i principi del comunismo, ma lo sono anche l'abbandono dell'agricoltura collettivizzata e la sopravvivenza della Chiesa come forza indipendente. «Questo non significa che si possa fare tutto; significa semplicemente che non si possono mai definire in anticipo quali siano i limiti invalicabili, né quale sia la capacità di rispondere alle pressioni: dipende dai rapporti di forze. L'alternativa posta da alcuni occidentali a proposito del comunismo — o dominerà il mondo, o verrà distrutto da una guerra mondiale — è un'ideologia della disperazione. La pressione interna può portare cambiamenti di notevole entità nell'ambito del blocco comunista, può aprirvi delle brecce. «Persino in Urss esistono incrinature. E' un Paese che soffre di contraddizioni insanabili: non può essere allo stesso tempo totalitario e economicamente efficiente, non può isolarsi completamente dal mondo esterno, e di conseguenza deve esporsi alle perniciose influenze del mondo libero-». — Come spiega la forza del cattolicesimo in Polonia, che tanto stupisce un europeo dell'Ovest? Bisogna vedervi il riaffiorare di un certo arcaismo, o la semplice affermazione dell'identità nazionale? «A lungo la coscienza religiosa e la coscienza nazionale popolare si sono quasi identificate in Polonia, malgrado la presenza di correnti anticlericali e anticristiane. L'identità religiosa ha avuto un ruolo fondamentale durante la spartizione del Paese. E' stato un fenomeno a due facce: da un lato, il cattolicesimo polacco è stato un elemento che ha raf- forzato l'identità nazionale, e ha contribuito decisamente alla continuità della cultura polacca; dall'altro, ha potuto avere questo ruolo soltanto perché era chiuso e intollerante. Se fosse stato più aperto, più lacerato dal dubbio non avrebbe probabilmente reso gli stessi servigi alla nazione. Ma se non avessimo avuto anche un movimento liberale e anticlericale, di opposizione alla Chiesa, la nostra cultura ne avrebbe sofferto terribilmente. Sia il cattolicesimo così com'era che i suoi nemici hanno contribuito al nostro sviluppo». La Chiesa «Oggi questo antagonismo è praticamente scomparso. La Chiesa, in quanto unico organismo non nazionalizzato, da un lato ha portato un elemento di pluralismo nella vita polacca, e avrebbe avuto questo ruolo anche se fosse stata più rigida; il cattolicesimo polacco, dall'altro, ha perduto la superficialità bigotta di un tempo, si è notevolmente aperto, ha allargato i suoi orizzonti, e questo ben prima del Concilio Vaticano II Ma la sua forza non è fatta soltanto dal convergere dei sentimenti religiosi e nazionali; c'è in Polonia anche un ritorno alla tradizione real¬ mente religiosa e cristiana. Dopo la rovina morale del comunismo, questa tradizione si è dimostrata il compendio sempre vivo di valori spirituali insuperabili per molti, intellettuali compresi». — Lei si professa ateo, eppure ritiene che i valori cristiani abbiano oggi un grande ruolo da svolgere. Come questi valori possono restare effettivi se non sono sostenuti dalla fede? «Non possono sopravvivere senza la fede. Il cristianesimo non può sopravvivere se ridotto a funzioni strumentali. Non ha alcuna importanza ciò che 10 personalmente credo o non credo. Ma non ho mai pensato che si possa riesumare una forma vuota della tradizione cristiana e riempirla di un contenuto diverso, come pensava Auguste Comte. Formulare programmi politici non è compito del cristianesimo. Sia la tradizione teocratica, che non è morta nella Chiesa, che le forme opposte, le quali riducono 11 Vangelo a un'ideologia rivoluzionaria, sono indicative dell'oblìo delle radici del cristianesimo e del predominio degli obiettivi profani sui veri valori religiosi. In entrambi i casi, manca la conoscenza di ciò che definisce il cristianesimo: il rifiuto di accettare valori secondari in assoluto. E' nell'essenza del cristianesimo il fatto che i valori temporali sono relativi. E' una verità banale, ma se la si dimentica si distrugge il significato del cristianesimo». — Pensa che il destino dell'Europa possa identificarsi con quello della cristianità, o la loro convergenza è soltanto una coincidenza? «Coincidenza o non coincidenza, il destino dell'Europa si è confuso con quello del cristianesimo in un processo lungo e doloroso. La cultura europea non può sopravvivere se . dimentica il suo lato cristiano, benché si sia sviluppata attraverso il conflitto fra la Chiesa e i Lumi. Ma le origini di questo conflitto sono quasi tutte ormai anacronistiche, sia per i mutamenti verificatisi all'interno del cristianesimo che per le crisi degli ideali dei Lumi. Non viviamo più nella situazione intellettuale del XVIQ secolo, quando la cultura laica si contrapponeva all'oscurantismo clericale. «Siamo piuttosto di fronte alla necessità di cercare una cultura che possa assimilare tanto la tradizione cristiana quanto quella dei Lumi. Il destino dell'Europa e quello del cristianesimo sono un tutto unico. Una società incapace di mantenere le distanze nei confronti di finalità temporali, come la tecnologia e il comfort, andrebbe in pezzi. Ed è una distanza che soltanto la religione può dare. «Ma non credo neppure che una cultura senza conflitti sia possibile, né auspicabile. Sono i conflitti a fare la cultura. E non credo neppure a un'estrema riconciliazione fra le correnti opposte della nostra civiltà. E' impossibile, alla nostra epoca, restare tranquillamente nella tradizione cristiana, intesa come capace di risolvere tutte le nostre difficoltà imponendo le sue regole a tutti i momenti della vita. I nostri mezzi di esprimere i nostti dubbi, le nostre angosce, sono ereditati da una situazione che non esiste più dal XLX secolo. Descriviamo il nostro mondo con il linguaggio di un'altra epoca, e la sfida maggiore del nostro tempo sta nel trovare forme adeguate d'espressione per le nostre preoccupazioni e le nostre speranze». — Il socialismo resta secondo lei il filo conduttore per una comunità terrestre? «La parola socialismo viene usata in un numero tale di significati diversi che ha perduto il suo contenuto chiaro. Non ha alcun significato se non si spiega. I valori principali che hanno contribuito a formare il movimento socialista nel XLX secolo non sono superati, è vero. Ma nella misura in cui sono ancora vitali, non sono più sufficienti per formulare un'idea politica. La sinistra d'oggi è in un impasse spirituale, e non ha più alternativa da offrire, ripete cliché chimerici o distruttori». Una scelta «Si sente in continuazione la parola "alternativa", ma quando se ne vuole conoscere il contenuto si scopre che si tratta del rimedio magico a tutti i mali — la statalizzazione universale — o di slogan di tipo anarchico, politicamente inapplicabili, economicamente fermi al liberalismo di un secolo e mezzo fa, cioè altrettanto impossibili. «I! socialismo della prima metà del XIX secolo era innanzitutto l'atteggiamento di quanti sposavano sentimentalmente il partito dei poveri, degli sfruttati, degli indifesi. Questo atteggiamento è ancora fondamentale, ma in se stesso non offre alcuna soluzione sociale. Il socialismo era anche la concezione di una società che avrebbe garantito a tutu la partecipazione ai valori importanti, nella quale nessuno sarebbe stato escluso dal godimento dei beni terrestri per nascita. In questa forma generale quest'idea è sempre vitale, ma non è neppure un programma politico. Tradurre questa concezione in una dottrina di statalizzazione totale può portare soltanto alla schiavitù del totalitarismo». — Le società capitalistiche offrono maggiori possibilità di sviluppare lo spirito d'iniziativa, maggiori possibilità di democrazia rispetto ai sistemi socialisti, nei quali l'informazione è monopolizzata da un partito? «Bisogna smetterla di pensare in base alle categorie del so¬ cialismo e del capitalismo, come se fossero due entità separate dall'abisso della grande rivoluzione; sono le categorie imposte dalla tradizione marxista, che non hanno nulla a che vedere con la realtà. "Capitalismo" ancora oggi significa qualcosa di tangibile soprattutto per quanto riguarda il mercato. L'esperienza ha dimostrato che abolire completamente il mercato equivale ad abolire anche la libertà. «Tutte le riforme economiche nei Paesi comunisti, se efficienti del tutto o in parte, vanno nella stessa direzione: ripristino del mercato. Ma la scelta di un liberalismo assoluto fatta da Friedman e Hayek mi sembra altrettanto morta in partenza. Il comunismo è forse possibile in un solo Paese (e, secondo il vecchio adagio, bisogna vivere altrove), ma il liberalismo perfetto in un solo Paese mi sembra semplicemente impossibile: può operare soltanto a livello del mercato mondiale. «Non credo in una società perfetta, né in una soluzione definitiva. Il socialismo resta suscettibile di sviluppi come atteggiamento, come tendenza a pensare la società dal punto di vista dei poveri e degli oppressi, non come una tecnica capace di garantire la felicità. E' un modo di reagire ai conflitti, preoccupandosi dei meno favoriti. Il comunismo come modello è distrutto, l'ideologia socialista come programma dalle pretese universali è un vicolo cieco». — Quali sarebbero dunque le sue personali posizioni politiche? «Non faccio parte di alcun partito politico, avrei esitazioni anche ad accettare l'etichetta di socialdemocratico, poiché questa espressione non definisce oggi alcuna idea chiara. Condivido alcuni valori della tradizione socialista, ma mi definirei conservatore in un senso e liberale nell'altro. E sono definizioni inevitabilmente ambigue e oscure. E' vero che il socialismo si è sviluppato in opposizione al cristianesimo, ma le sue fonti storiche sono cristiane: stare dalla parte dei poveri e degli indifesi. Da queste fonti viene quanto c'è di migliore nel socialismo». Pascal Bruckner (Copyright di «Le Monde» e per l'Italia di «La Stampa») Leszek Kolakowski nella caricatura di David Levine (Copyright N.Y. Revlew of Books. Opera Mundi e per l'Italia .La Stampa.)