Re del palcoscenico

Re del palcoscenico PAOLO GRASSI DENTRO IL TEATRO E FUORI Re del palcoscenico «Sono un uomo che ha bruciato la sua vita per il teatro». E' l'ultima battuta di Grassi che serbo in mente: me la sussurrò ufi anno fa, in un sospiro di stanchezza, nelle pause della riunione di un premio teatrale. Potrebbe sembrare enfatica, è, invece, profondamente vera. Grassi è stato l'uomo che ha fatto nascere e che ha infaticabilmente protetto il teatro come professionalità e cultura, l'uomo che ha fatto piazza pulita, per primo, del dilettar) tismo, dell'approssimazione, dell'ignoranza pseudoromanticheggiante che aduggiavano tanta parte della nostra vita teatrale sino al secondo dopoguerra. Milanese di nascita, ma di madre bavarese e di padre pugliese (era nato al 23 di via Broggi il 30 ottobre 1919), «cattivo studente» all'allora esclusivo Regio Liceo Ginnasio Giuseppe Parini, Grassi entra in teatro per la porta di servizio del giornalismo teatrale (è, diciottenne, il «vice» di Angelo Frattini, il critico del «Sole» di Milano), ma presto sfodera un prepotente istinto organizzativo, un fervore, un'energia che nulla sembra poter arrestare. A vent'anni è capocomico della compagnia Annibale NinchiGualtiero Tumiati che porta in due mesi in quarantacinque citta La cena delle beffe di Sem Bertelli; a ventitré è l'animatore di «Palcoscenico», l'unico gruppo sperimentale teatrale italiano all'infuori del Guf. Tra gli attori Franco Parenti e Mario Feliciani, in repertorio Cecov, Synge, Yeats, O'Neill, ma anche Fanelli, Rebora, Treccani, Meano. Gli spettacoli hanno alterne fortune, agli elogi della critica si avvicendano le stroncature, ma intanto sono, per Grassi, l'occasione di provarsi in tutte le direzioni, da regista a scenografo, da cassiere a esperto in pubbliche relazioni. Gli anni della guerra lo vedono, come altri compagni, lontano dal palcoscenico, dietro una scrivania. Ma è la scrivania di una casa editrice, la Rosa e Ballo (dal nome dei due illuminati finanziatori): Grassi apre le sue collane ai grandi «eversori», ai profeti del nuovo teatro, Strindberg, Kaiser, Wedekind, in accurate traduzioni e in linde edizioni tascabili, dalle copertine grigie e mattone. Quando, nella Milano risorta, cominciano le festose giornate dei ritorni, e ci si affratella d'impeto, tra commozione e rigogliosa speranza, Grassi sa chi deve cercare: un giovane che ha due anni meno di lui, ed ha conosciuto ragazzo, con cui ha passato lunghe sere a leggere teatro, discutere, o ad ascoltare Schònberg: il triestino Giorgio Strehler. Strehler, esule in Svizzera, sotto il nome di Georges Firmy, ha fatto regie di teatro, prima nel campo di concentramento di Murren, poi a Ginevra e Zurigo (Eliot, la prima mondiale di Caligola di Camus, Wilder): e soprattutto è divorato dalla febbre di farne ancora. Nel decennale della morte di Gorkij mettono in scena al teatro Excelsior (e i soldi, si capisce, li trova Grassi), Piccoli borghesi, con una équipe di attori, destinati, senza saperlo, a lavorare con i due «dioscuri» (come a Milano hanno preso a chiamarli) per anni: la Brignone, Satinicelo, Randone, Parenti, Moretti, la Zareschi. La coralità dell'allestimento colpisce la critica, i «dioscuri» sono già in giro per la città a cercarsi una sala tutta «loro». La trovano in via Rovello, nel cinemino per coppiette Broletto, sventrato dagli sgherri di Muti, che hanno fatto dei camerini celle di tortura. In quella platea di seicento posti, su quel palcoscenico di sei metri per cinque. Grassi e Strehler faranno teatro per venticinque anni, dal 1" maggio 1947, data dello «storico» esordio, all'abbandono di Grassi, nella primavera del '72. E' nato il primo teatro a gestione pubblica d'Italia, è nato soprattutto il primo organismo che crede «all'impegno sociale, alla coscienza etica, alla maturità civile» del far spettacolo. Grassi vi realizza il suo capolavoro: impone a sé e agli altri la sua etica calvinista secondo cui puntualità, ordine, efficienza sono innanzitutto cultura; è volitivo e inquieto, aggressivo e tenero, arrogante e umile; non accetta, neppure per un istante, di derogare dalla morale delle «mani pulite»; è un nemico giurato degli ipocriti, degli adulatori, degli sleali. Ai molti invidiosi, ai detrattori, ribatte con orgoglio d'essere alla guida di una piccola industria culturale, che lavora nei binari della più efficiente produttività, senza per questo pregiudicare la propria creatività artistica. Con lui, dietro di lui, c'è, s'intende, l'inventiva prodigiosa, il rigore analitico di Strehler, il «rivisitatore» infaticabile di Shakespeare, Goldoni, Cecov, Pirandello, Brecht. Bastano questi cinque drammaturghi a imporre il Piccolo al mondo intero. Ma è sotto il segno di Brecht (il timido Bertolt dalla voce sommessa, col sigaro Virginier sempre in bocca, che Grassi presenta agli operai milanesi, durante una leggendaria replica dell'Opera da tre soldi) che i «diarchi» di via Rovello realizzano i loro spettacoli più memorabili: l'Opera appunto, il Galileo, lo Schweyk. Quando la sera del 25 aprile 1972 Grassi annuncia al pubblico di aver accettato la carica di sovrintendente alla Scala, il Piccolo ha prodotto centoquarantasei spettacoli, ha registrato oltre ottomila recite, è stato ospite di centottantacinque città straniere in trenta paesi diversi. Alla Scala, nella più prestigiosa istituzione musicale del mondo, Grassi resterà sino al 18 febbraio 1977. Meno di cinque anni di lavoro, ma di un impeto straordinario, e persino con un pizzico di provocazione in più che al Piccolo. Assillato da preoccupazioni costanti (i suo incubo è «la macchina infernale dei debiti, dei crediti, degli interessi passivi, delle banche, delle pensioni») Grassi realizza meno spettacoli, ma più repliche; concede che venga montato uno spettacolo di grande impegno solo se ha la precisa garanzia di poterlo programmare con lo stesso cast almeno per un paio di stagioni; infonde, insieme ad Abbado, motivazioni culturali organiche alle stagioni sinfoniche (i cicli su Beethoven, Mahler, Schònberg, Brahms, Bruckner); difende nel repertorio i grandi del passato, da Monteverdi a Puccini, ma fa spazio ai moderni, ai Nono, ai Bussotd, soprattutto (è Abbado a riconoscerlo) apre la Scala «a un nuovo pubblico, in un clima ambientale e psicologico diverso, consapevole e maturo». Nascono così la Walkiria di Ronconi-Sawallisch (è l'esordio del regista alla Scala), il Don Carlos di Abbado-Ronconi, l'Otello di Kleiber-Zeffirelli, portato per la prima volta dalla Scala, attraverso le telecamere, nelle case di milioni di italiani. La Scala va a Vienna, al Bolscioi di Mosca, negli Stati Uniti per il bicentenario americano con Verdi, Puccini, Rossini, con direttori come Abbado e Prétre, con registi come Strehler e Zeffirelli: ma Grassi confida agli amici che, più del successo Usa, è orgoglioso dei centomila operai che nell'ultima stagione è riuscito a portare a teatro, grazie all'intesa con la consulta sindacale. Lo aspetta, tuttavia, una platea più vasta ancora del tempio musicale ambrosiano: sono le decine di milioni di ascoltatori e spettatori della Rai-tv. Dal settimo piano di viale Mazzini, dove è stato insediato dopo la nomina a presidente del 20 gennaio 1977, Grassi capisce presto che non riuscirà a ridare «dignità nella libertà» a dieci, cento, mille palcoscenici, reali e ideali, che scaturiscono dal piccolo schermo. E' venuto in quel Barnum elettronico, con i suoi dodicimila dipendenti, per restaurarvi concetti «antiquati» come il valore personale, la capacità professionale, la collaborazione tra singoli. Crede fermamente nella emulazione e-nella dialettica: e si scontra con il conformismo, l'informazione controllata, il clientelismo politico. Certe sue clamorose impennate contro le pressioni indebite dei partiti finiscono per alienargli le simpatie dei socialisti che lo hanno voluto a quel posto, lui «socialista utopista», con la tessera dal '42, e per questo disposto a riconoscersi solo nei grandi vecchi del passato, da Turati al venerato Nenni. Scaricato dai «piccoli e giovani socialisti di oggi», quelli che lui chiamava spregiativamente gli «aquilotti», si dimette nel giugno 1980. «E'stata un'esperienza amara — confessa in varie interviste — non credevo che l'arroganza e l'inciviltà dei politici potessero spingersi a tanto». Al teatro, a quella che ha sempre definito «la regina delle arti», sente che non è più tempo di tornare. Lui che, nei tumultuosi anni del Piccolo, ammetteva stizzito di non essere un buon lettore, di sentirsi con i libri «come una lepre inseguita dai levrieri», per la gran fretta di lavorare per la scena, ora decide di farsi l'editore di pochi e prestigiosi volumi, di musica e arti figurative, alla guida della Electa, una piccola azienda dalla stamperia modello. Dicono che nei pochi mesi in cui il destino gli ha concesso di fare l'editore avesse conquistato i duecento dipendenti per l'operosità, la fermezza, la tenacia. Agli intimi confessava d'abbandonarsi sempre più al «foscoliano culto dei morti», di sentirsi sempre più debitore a loro di doni stupendi, la musica di Mozart, la poesia di Goethe, il teatro di Brecht: e di sperare di poter lasciar in dono ai vivi «l'imperfetta fatica di Grassi per un teatro culturale per tutti». Guido Davico Bonino ^^^^^^ ^ ^ ^ Grassi, quando era sovrintendente alla Scala, con la Frecci

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