Malipiero e i suoi animali

Malipiero e i suoi animali RICORDANDO IL MUSICISTA, TRENTANNI FA Malipiero e i suoi animali «Non li illudere che parli di musica e di teatro» — mi sussurra Mario Labroca — «dice che sono tempi stonati. Però lavora. Vedrai, invece, che ti parlerà delle sue bestie. Da Asolo ne ha portato, qui a Venezia a Ca' Pisani, non so quante, sulla riva ne ho viste una barca. Domandagli notizie sull'Istituto Vivaldi e del Sesto Quartetto, l'Arca di Noè. Ti dirà di averlo intitolato così perché è pieno di bestialità. Non immagini il muso del custode del Conservatorio quando ha visto arrivare, a piedi, dentro le cesie e le gabbie, i gatti (il soriano rosso e quello nero), il bassotto, il pechinese, i due barboncini e il cucù nella pagoda di vimine. Gli altri sono rimasti ad Asolo». «Ci mancava proprio che li portasse al Conservatorio» — dicevo. «Erano gabbie ingombranti — continuava Labroca —, il cucù, ha detto, sta meglio in mezzo alle piante! Ma non poteva portare con sé il gufo reale. Glielo ha venduto, la primavera passata, un contadino di Monfumo, per trecento lire, un esemplare superbo con gli occhi giallo-limone. Malipiero se n'è innamorato di colpo. Il fatto sta che due settimane dopo, il contadino di Monfumo è arrivato con un sacco. "Maestro, el me scuserà, ho capito che lei con le bestie è di boncòre. Qui, nel sacco, ho un'aquila di sei mesi, però è bona come un agnello». «Per carità, tirala fuori», diceva Malipiero, «quella magari se sòfega». «Pian pian — replica il contadino —, fuori è una parola, è un oselazzo estroso, costa mille lire; e lei, me le dà?». «Ti ho detto di tirarla fuori subito». «Così — continua Labroca — sono usciti in giardino, e l'uomo ha liberato l'aquila. Era una gran bella bestia, le penne color ferro cangiante. Il contadino taglia gli spaghi, ma la tiene legata a una zampa con una cordicella. "Aquila del Grappa" — dice Malipiero, sentenziando con occhio clinico —. // conladino ritira la carta da mille e se ne va». «L'aquila legata a una zampa — continua Labroca — restò in giardino come un animale domestico; anzi, sull'albero si fece una nicchia. Mangiava solo carne; ed era così priva della naturale ferocia per la quale è in proverbio che un giorno Malipiero, stufo di vederla legata in mezzo al fogliame, la liberò. Quella levatasi in volo planava in larghi giri dal Castello alla piazza di Asolo, al collegio del Filippin, e giù al Foresto Vecchio». «All'aquila, all'aquila!» gridavano gli asolani fuggendo per le strade spaventati; e a6guantavano i bambini tirandoli dentro le porte. Non successe nulla. L'aquila tornò sull'albero nel giardino di Malipiero. «Il giorno dopo, al suono della campana del mezzodì il rapace si spicca dall'albero e sale in cielo, plana tenendo l'occhio sul parco della Freya Stark, risale alla Rocca e fatto un bel giro cala sul Casonetto». «All'aquila, all'aquila!» gridavano gli asolani per le strade e dalle finestre, mentre quella •discendeva nel giardino di Malipiero senza aver fatto danni. «Ad Asolo Malipiero è rispettato — diceva Labroca — però, individuato il rifugio dell'animale, si era mossa una delegazione di cittadini. "Maestro, l'aquila va tenuta in gabbia"». «Così volete mozzarla — replicava Malipiero —. State tranquilli, ormai la conosco, non farà male a nessuno. Basta non tormentarla». «Maestro, o lei la tiene legata...!». «Il giorno dopo — finiva Labroca — astutamente appostati, alcuni asolani abbatterono l'aquila a fucilate. Malipiero sentì gli spari, capi e ripetè a se stesso l'aforisma cui ricorreva da anni; e cioè che più conosceva l'omo e più stimava le bestie». Qualche mattina dopo il contadino di Monfumo era tornato, desiderava parlare col maestro. «Ma cosa vuole?» domandava Malipiero, eccitato, alla domestica. «Dice di volerle vendere una piccola aquila, e che lei è di boncòre». «Rispondigli che il mio boncòre è talmente grande che spero riporti l'aquila sul Grappa». «Non ti far incantare dai suoi discorsi di bestie — finiva Labroca — parla, digli che ti racconti i suoi progetti. Sono finite le musiche per /Orestiade, tradotta da Valgimigli? Potreste fare «//Olimpico uno spettacolo da far correre mezzo mondo. E che lasci quieta la Quinta sinfonia concertante, per due pianoforti e orchestra, che ormai hanno trasmessa nel dicembre scorso dalla B.B.C. Domandagli dell'Allegra brigata». «Glielo domanderò, sta sicuro» — rispondevo. Le vetrinette con i coleotteri, allineate sul tavolo, erano vicine alla finestra. Gli dicevo: non per quelle bellezze ero andato a trovarlo, ma per sentirlo discorrere di musiche: quartetti, sinfonie, cori, sonate, canzoni. «Ha visto le mie farfalle di Asolo»? Era andato a prendere da uno stipo un'altra vetrinetta, l'aveva scoperta. Sul fondo stavano le farfalle trafitte, le ali bleu e lilla, viola, scarlatte e nere, le lunghe corna rovesciate sul dorso, gli occhietti come rubini. «Quelle perché si gusti gli occhi — diceva — ecco qua il congresso dei mostri». T^Jf<i la tenda, la vetrina dei coleotteri splendeva di corazze. Erano insetti giganteschi, dal torace piccolo, armati di tenaglie, di morsetti, di pungiglioni acutissimi. Uno di essi, come un'enorme castagna, la testa dalle corna all'impiedi, era di un disegno talmente barbarico che lo indicai con orrore. «E' /'Archon centauro della Guinea — diceva lui con voce mansueta — e questo, come un elicottero, si chiama Mormolice foglia. Guardi lo Scarabeo ercole dell'Amazzonia. Quella sul torace sembra pelle di serpente. Le Cetonie verdi del Congo...». «Sembrano smeraldi» — dicevo per ingraziarmelo. «Pietre preziose» — replicava, e aveva sollevato la vetri- netta perché il cristallo non specchiasse. «Lei non ama le bestie» — sussurrava; e rimetteva la vetrinetta sull'armadio. L'orrore per quei mostri mi aveva tolto la parola. «Andiamo a dare un'occhiata ai piccoli che stanno all'ospedale» — diceva. Nel fondo di una scatola di biscotti giacevano, le zampette all'aria, tre coleotteri dorati. Con una bacchettina giapponese li voltò; e mentre mi parlava delle cure mediche, alle quali vanno sottoposti i malati che si muovevano sulla crusca pulita, mi fece odorare il nirbana (un profumo fra la resina e l'acido fenico), tenuto gelosamente in una bottiglietta di Arpège di Lanvin. Chiudeva la scatola e andava a sedere nella poltrona. La stanza era vasta, arredata all'antica, con un gran letto a colonne tortili e baldacchino. Sulla mensola vecchi vetri di Murano, anforette, fiale, calici. I muri erano letteralmente coperti di acqueforti del Canaletto, in bellissimi stati. Il tavolo da lavoro, quasi addossato alla parete era ingombro di carte, di libri da musica. Sulla partitura aperta dormiva acciambellato il soriano nero. Dietro il tavolo, la biblioteca aperta con le musiche rare, lo scaffale dei manoscritti, degli incunaboli. «Una volta o l'altra — cominciava incoraggiante — parleremo di Nicolò Vicentino, suo compatriota dimenticato. Però lei non ama le bestie» — segui tava con un'ombra di ironia. «Mi piacciono vive — azzardavo — detesto le mummie, i cadaveri». Rideva. «Maestro, possiamo parlare di musiche»? «Quali? — domandava con candore —. Mi dica lei, invece. Dov'è stato, tutto questo tempo? Non la vedo a Venezia da mesi». Gli invento alla svelta di essere stato in giro per l'Italia. Lui vive al Conservatorio, esce a passeggio per Venezia soltanto di notte. «Dov'è stato?». «In Polonia» — azzardo. Mi aspetto che parli delle musiche polacche, o almeno delle condizioni politiche di quel paese cattolico; invece con aria distratta: «Ah, la Polonia! — sussurra — ha mai sentito nominare il principe Alexander Pronzinsky? Partì per la Francia non so per quali affari, ritornò l'anno 1848, in una carrozza lussuosa tirata da quattro cavalli. In prossimità di Varsavia, vide la città in fiamme e domandò a un pellegrino che cosa mai stesse succedendo laggiù. Il pellegrino gli rispose che a Varsavia stavano facendo la rivoluzione. "Bene — disse il principe Pronzinsky — andrò a vedere". Là lo presero, lo picchiarono a sangue, lo spogliarono e, naturalmente, gli tolsero il tiro a quattro col quale era arrivato. Il principe riuscì a riparare nuovamente in Francia, dove aveva beni e capitali. Ma dopo qualche anno dovette ritornare a Varsavia, dove nel frattempo il regime politico era cambiato. Non lontano dalla capitale il principe Pronzinsky si sporse dal finestrino della nuova carrozza, tirata da quattro cavalli, e vide salire dalla città bagliori e fuochi non propriamente d'incendio, ma fuochi insoliti. Domandò a un passante che cosa stesse succedendo nella capitale, ed il passante rispose che a Varsavia stavano facendo una grandissima festa. "Sarà una festa — rispose il principe —; ma io torno indietro". E dato ordine di voltare la carrozza, si diresse a Parigi». Neri Pozza