Vita allo sbaraglio di Bonaiuti l'eretico

Vita allo sbaraglio di Bonaiuti l'eretico EPISTOLARIO DELLO STORICO SCOMUNICATO Vita allo sbaraglio di Bonaiuti l'eretico «Sua Santità, nella sua tenerezza vigile e premurosa per me, si era benignato di fare il mio nome per chiedere tassativamente che nei miei riguardi fosse senza indugio e perentoriamente applicato quell'articolo 29 del Concordato il quale affida l'esecuzione delle sentenze ecclesiastiche al braccio secolare». Così Ernesto Buonaiuti, il grande studioso di storia del cristianesimo cui gli interdetti pre-concordatari e concordatari avevano bloccato il diritto alla cattedra, scriveva il 22 febbraio 1930 ad Arturo Carlo Jemolo, uno dei suoi giovani amici e ammiratori (più giovane di lui di un decennio), in una lettera ancora inedita che comparirà nel prossimo fascicolo della Nuova Antologia, volto a onorare i novantanni del maestro e amico operoso. Per quanto scomunicato vitando da quattro anni, Buonaiuti si era rifiutato di deporre l'abito talare. La sua difesa aveva qualcosa di strenuo e di patetico. Non c'era solo l'orgoglio del credente, che non aveva abiurato l'antica fede pure nel ripensamento critico e storico partito dalla scintilla modernista; c'era la resistenza intellettuale di chi voleva, fisicamente, esteriormente, reagire a un abuso, non piegare a una sopraffazione. L'episodio torna, con toni meno risentiti e meno espliciti, in uno straordinario epistolario di Buonaiuti che Ambrogio Doninl suo allievo e poi suo collega in storia del cristianesimo, un intellettuale approdato alle sponde comuniste da un intenso studio di storia della Chiesa, ha pubblicato in questi giorni presso la Nuova Italia sotto il titolo, efficace ed eloquente, La vita allo sbaraglio, lettere a Missir (1926-1946). Sono seicento pagine annotate con rigore filologico degno della vecchia scuola, senza sbavature e senza incertezze, con perentorietà di giudizio talvolta tagliente (da parte del curatore) ma sempre temperata da una commovente fedeltà a Buonaiuti, l'antico e non dimenticato maestro (un maestro straordinario soprattutto nell'arte persuasiva della cattedra, incantatore dei suoi ascoltatori: durante il fascismo perfino l'agente di pubblica sicurezza, obbligato a seguire le lezioni in salotti privati e soprattutto in circoli protestanti, era uso chiedergli schiarimenti, esprimergli ammirazione). Remo Missir, un italiano residente a Smirne, nella Turchia anatolica, autodidatta, era uno di quei giovani, giovani negli Anni Venti-Trenta, conquistati dal fascino di Buonaiuti e rimasti in corrispondenza, fitta e affettuosa, con lui. Nel ventennale della morte, nella Roma del 1966, all'Eliseo, Missir incontra Donini, gli parla di questo carteggio, lo segue a Bari, 10 invita a farsi editore della preziosa testimonianza. Gli ostacoli sono molti: fino al '37 le lettere sono manoscritte, la calligrafia di Buonaiuti è spesso inintellegibile... Comunque ogni difficoltà è superata dalla pazienza o dalla tenacia di Donini. Il libro è di una desolante malinconia. Buonaiuti è investito dalle norme concordatarie su due fronti: dall'articolo 29 ma anche dall'articolo 5. Egli ha vinto da molti anni la cattedra; è certo 11 maggiore studioso di storia del cristianesimo, nonostante le riserve di Omodeo, espresse in un momento non felice (come quelle su Gobetti). Dal '26, dal giorno della scomunica maggiore, è praticamente senza cattedra. Ai negoziatori del Concordato, la Santa Sede chiede fra '26 e '29 un atto di distensione, di apertura: bloccare l'insegnamento di Buonaiuti. Pietro Fedele non è Giovanni Gentile. E' un ministro debole, di un «fascismo» recente e di basso conio. Non ha autorità su Mussolini, ha tutti i difetti degli universitari senza le qualità degli intellettuali che sono anche professori. Impone a Buonaiuti un incarico extra-accademico, la compilazione del catalogo della Biblioteca Vallicelliana, più tardi le ricerche su Gioacchino da Fio' re. Ne guadagna la produzione scientifica di Buonaiuti, non la sua serenità intellettuale. «Molto rammarico e profondo scontento» affiorano in queste pagine tese e commosse, senza peli sulla lingua, senza mai una piega di riserva o di ipocrisia L'articolo 5 del Concordato — forse la più umiliante abdicazione dello Stato alla Chiesa, insieme con la legislazione matrimoniale ed educativa — in terdice ai sacerdoti «apostati o irretiti da censura» ogni inse-" gnamento o comunque ufficio statale, «a contatto immediato col pubblico». Buonaiuti è il bersaglio principale. Mussolini si rifiuta di applicare la norma in forma retroattiva (come chiedeva la Santa Sede). Per quasi due anni Buonaiuti passa da un incarico extra-accademico all'altro, conservando il «ruolo» di professore anche se non il contatto con gli studenti, interdetto fin dal '26. Nel maggio del '29 si illude che l'urto fra Mussolini e la Santa Sede preluda a una svolta neo-laicista del regime. Si entusiasma ai discorsi di Mussolini alla Camera, che giudicherà «veramente memorandi», scrivendone su Ricerche religiose. Qualcuno vede addirittura l'influenza dell'eretico nelle citazioni dotte del duce: è una tradizione orale che Jemolo raccoglierà più tardi, ma che Donini contesta, forte di una testimonianza diretta, in materia, di un grande amico di Buonaiuti, rimastogli sempre legato anche nell'avversa fortuna, Mario Missiroli. Le illusioni di «don Ernesto» dureranno poco. La pace fra Chiesa e fascismo è ristabilita presto, e, in quella fase, senza troppe ombre. Buonaiuti continua a fare lezioni private, nella mezza divisa di ecclesiastico di lingua inglese o tedesca, col suo collarino e col suo costume nero, ma non può tornare alla cattedra. Alla fine del '31 il fascismo impone il giuramento agli universitari. Buonaiuti rifiuta, con altri pochi, ma forte di una motivazione peculiare, da credente qual è sempre stato e quale rimarrà. «Fra le prescrizioni evangeliche più precise e solenni, v'è quella di restituire a Cesare quanto è suo, ma v'è anche quella di non giurare in qualsiasi maniera (Matteo, v. 34)». Di fatto il suo astensionismo evangelico coinciderà sempre di più col suo antifascismo morale (fino a quello schema, conseguente, di «alleanza democratica» nel dopoguerra: una vibrazione quasi amendoliana). Fra '33 e '40 troverà all'estero, nelle università svizzere o inglesi, molto maggiori soddisfazioni di quelle, rare o avare, che gli riserberà la grama e stentata vita in Italia. La sua rivista di scienze religiose sarà a un certo punto interrotta (per mancanza di carta, si dirà); le sue condizioni economiche diventeranno sempre peggiori. Vivrà di incarichi editoriali, un po' come Luigi Salvatorelli. Né la Liberazione riserverà nessuna riparazione, come nel caso di Salvatorelli, a questo grande spirito solitario. Non riavrà la cattedra perché i ministri laici dell'istruzione piegheranno all'ingiunzione della Santa Sede. Anzi, supremo paradosso e mortificazione: sarà reintegrato nell'insegnamento, come tutti i non giuranti (meno di venti, solo sei vivi), ai fini economici e di carriera, ma senza poter risalire la cattedra. Ci fu un momento, alla fine del '45, in cui De Gasperi minacciò perfino di riaprire la crisi ministeriale pur di non consentire il ritorno di Buonaiuti all'insegnamento. Nel gennaio '46, fu escogitato un compromesso: gli fosse almeno consentito un corso libero, nell'aula VI della facoltà di lettere e filosofia. Dedicato a San Paolo: l'origine della sua rottura con la Chiesa. Il successo fu enorme. La reazione del nunzio apostolico durissima. La seconda lezione interrotta. Poi una faticata ripresa. Nell'alternanza di speranze e di timori il cuore di Buonaiuti crollò, il 20 aprile del '46. «Ho ancora tante cose da fare», furono le ultime parole di un uomo che non aveva mai interrotto — divieti o interdetti a parte — il lungo colloquio col Dio che è in noi. Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Bari, Italia, Missir, San Paolo, Smirne, Turchia