Roma: un nuovo pm per il processo sul volume «L'ape e il comunista» di Giuseppe Zaccaria

Roma: un nuovo pm per il processo sul volume «L'ape e il comunista» Sorprendente decisione alla vigilia della sentenza Roma: un nuovo pm per il processo sul volume «L'ape e il comunista» Il posto di Infelisi preso da Nicolò Amato - Il pm «sostituito» aveva già svolto la requisitoria sui quattro redattori; adesso segue un'altra indagine ROMA — Due pubblici ministeri, due linee d'accusa che oggi, con ogni probabilità, sfoceranno quasi in una doppia requisitoria: nel processo contro i quattro redattori de L'ape e il comunista, in tutta la problematica che la vicenda continua a suscitare, si è inserita in questi ultimi giorni una situazione alla quale è difficile trovare precedenti. Il pubblico ministero è stato sostituito: Luciano Infelisi, quello che aveva spiccato gli ordini di cattura, compiuto le prime indagini, interrogato gli imputati, che pochi giorni fa, dopo una vibrante requisitoria, aveva chiesto una condanna a tre anni, non c'è più. Ufficialmente è impegnato in un'altra indagine; altri sostengono che sia in vacanza: di incontestabile c'è solo il fatto che il suo posto, in udienza, è stato preso da Nicolò Amato, uno dei più esperti fra i magistrati della Procura. Lo scambio era avvenuto già da due udienze, ma sembrava potesse rientrare fra quelle sostituzioni episodiche che talvolta avvengono durante le udienze meno significative di alcuni processi. Ieri invece, a conclusione delle arringhe difensive, è apparso chiaro che il processo sarebbe stato concluso dal nuovo pubblico ministero: tanto che Nicolò Amato ha ottenuto senza difficoltà un giorno di tempo per preparare la sua replica. Il problema è che questa mattina il magistrato sarà costretto a trasformare quella che la legge considera una puntualizzazione in un intervento vero e proprio, con una ricostruzione forse simile a quella già compiuta dal collega ma con richieste certamente diverse. Amato deve infatti correggere la soluzione (tecnicamente improponibile) prospettata giorni fa da Infelisi: quella di considerare l'aggravante dell'aver agito a fini di terrorismo equivalente alle attenuanti, operazione esclusa dalla «legge Cossiga». Questo infortunio, come è facile immaginare, ha fatto fiorire numerose interpretazioni sull'avvicendamento al banco della pubblica accusa. E' evidente comunque che questa mattina Nicolò Amato dovrà in qualche modo cambiare la linea della Procura, forse escludendo quell'aggravante, forse chiedendo in base a un computo meramente tecnico pene più gravi. La difesa già ieri ha mostrato forti perplessità su questa soluzio ne. Per i giudici popolari, sa- rebbe un nuovo elemento di confusione: proprio ieri mattina, dopo l'intervento dell'avvocato Oreste Plammini Minuto, difensore di Eduardo Di Giovanni, i termini della contrapposizione accusa-difesa erano stati posti in modo essenziale. Flammini aveva esaminato uno per uno i punti del processo e contestato tutte le tesi dell'accusa, alternando con molta abilita il ragionamento all'enfasi, il meticoloso discorso tecnico alle sortite ironiche. Come quella che ha accompagnato il discorso su una sentenza del '56 che il pubblico ministero, nella requisitoria, aveva citato come autorevole precedente di condanna inflitta a chi, diffondendo uno scritto, aveva compiuto dell'apologia. Quella sentenza, ieri, è stata letta da Flammini per intero: era stata emessa a Bolzano contro un cittadino austriaco, che aveva lanciato manifestini da un treno alla stazione di Bressanone. La condanna c'era stata, ma per un reato diverso da quello per il quale il tedesco era stato arrestato: e in appello (dopo dodici mesi di detenzione) era stata ridotta da tre anni a dieci mesi. «A voi, giudici popolari, adesso si sta chiedendo di riempire con la vostra sentenza un vuoto legislativo — ha continuato Flammini —. Tra i frutti velenosi che il terrorismo ha seminato, c'è anche l'atteggiamento di chi vuole usare i suoi crimini per perseguire reati che la nostra legge non contempla*. I punti sui quali Flammini si è soffermato, sono quelli sui quali avevano insistito tutti gli altri difensori: la separazione netta tra autori e stampatori del libro, l'inesistenza di un accordo tra redattori e terroristi, la mancanza, insomma, del «dolo», della volontà di esaltare le teorie delle Br. 'Il pubblico ministero — ha continuato Flammini — vi ha chiesto di non permettere che i terroristi possano pubblicare le loro tesi in modo "ufficiale": ma davvero pensate che ne abbiano bisogno?». Tutto, ha proseguito, dimostra che obiettivo de L'ape e il comunista era di contribuire a un dibattito civile sui problemi del marxismo. E, concludendo tre ore di arringa, anche Flammini ha fatto appello alle emozioni: «Eduardo Di Giovanni è un galantuomo: non accetterò mai che possa essere considerato un eversore. Sono indignato per quel che gli è stato fatto, per quel che il p.m. ha insinuato sul suo conto. Non cadete nelle suggestioni dell'accusa: dovete giudicare cittadini che hanno difeso la Repubblica e continueranno a farlo, se non glielo impedirete». E' finita tra lacrime di commozione degli imputati e dei loro colleghi. Si riprende stamane, per la sentenza. Giuseppe Zaccaria

Luoghi citati: Bolzano, Bressanone, Roma