Il silenzio e la chiacchiera

Il silenzio e la chiacchiera Leningrado: bisogna impedire a quel cervello di pensare. Deve attaccarsi a una radio straniera disturbata, a un giornale vecchio, a un ipotetico viaggiatore che gli porti notizie riservate dal mondo: nell'età dei mass-media si trova in condizioni di vita non molto lontane da quelle d'un intellettuale di provincia dell'Ottocento. Prendiamo, tra le notizie della settimana, quelle che si riferiscono all'ostruzionismo radicale nel Parlamento italiano. Gli interventi oratori che volevano impedire l'approvazione del fermo di polizia hanno preso il carattere incongruo di una prestazione atletica. In 180 ore di parole perse sono stati battuti primati di resistenza, si è fatto appello alle più ingegnose risorse e alle più oziose figure retoriche per ripetere quattro idee in modo sufficientemente variato e digressivo (quale editore pubblicherà, in due tomi, questo monumento al vuoto?). Altri, pure convinti della legittimità di una battaglia, ne hanno dimostrato in anticipo l'inconsistenza pratica. Ma a noi preme qui sottolineare — di fronte a una parola che in troppe parti del mondo appare ridotta al silenzio — lo spettacolo triste di una parola che da se stessa si nega, che viene meno alla sua elementare funzione e soltanto per prudenza politica non affida alla matita degli stenografi 180 ore di borborigmi e urli. Realizzando alla lettera, ma in senso usurpato, la sublime speculazione di Wittgenstein: «Noi combattiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il linguaggio». Non è anche questo un segno della nostra immaturità? Lorenzo Mondo Il silenzio e la chiacchiera Parliamone PARLARE. Le parole sono il nostro mestiere... Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l'uomo e non l'uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l'uomo le creava per servirsene». E' una citazione da Pavese, il Pavese neorealista che deve giustificare a se stesso e agli altri l'esercizio dello scrivere, che deve tener conto dei nuovi doveri che si impongono allo scrittore dopo gli anni della guerra e della dittatura. Le parole «intrattabili e vive» rischiano di prendere la mano all'artista, di imprigionarlo con le loro fascinazioni in torri di avorio e rocche di cristallo. Per questo devono essere piegate alle esigenze della comunicazione e rituffate nell'aria aperta; anche se poi — con inconscia astuzia di scrittore — Pavese le riconduce alla tutta umana, ma originaria, aurorale creatività. Come in un cerchio chiuso, dove il raccontatore di storie dà e riceve, pareggiando i conti con la letteratura e con la vita. Ma solo tecnicamente le parole appartengono allo scrittore, in realtà sono anche «il nostro mestiere», di noi tutti, sono quelle che ci caratterizzano come esseri riflessivi e comunicanti. Ed è per questo che ogni offesa alla parola ci umilia e ci colpisce nel profondo. La parola separata delle élites e quella inflazionata dell'incultura. La parola degradata e mistificata delle corporazioni e della politica. La parola negata. In un articolo pubblicato questa settimana dall'Europeo, la moglie di Andrei Sakharov ci fornisce una testimonianza Disegno di Steinberg (dal volume «L'ispettore», Garzanti) agghiacciante sull'esilio cui è stato costretto il più famoso oppositore politico dell'Unione Sovietica. A parte le restrizioni fisiche, i pedinamenti, i dispetti, a Gorki l'illustre fisico può parlare soltanto con la moglie. Non telefonare, scrivere, avere rapporti con il mondo scientifico di Mosca e di

Persone citate: Andrei Sakharov, Garzanti, Lorenzo Mondo, Pavese, Steinberg, Wittgenstein

Luoghi citati: Leningrado, Mosca, Unione Sovietica